Istituto dell’immemoriale: aspetti endo-procedimentali – Parte II

Poiché la struttura medesima dell’immemoriale s’incardina sul postulato dellavetustas, quasi si trattasse di quella “grundnorm”, tanto cara al giurista Kelsen, cioè sul decorso di un lungo lasso di tempo non determinato, nel corso del quale il possesso del diritto sia stato nec vi, nec clam, nec precario, ovvero costante ed incontrovertibile, analogamente all’usucapione (e di qui nascerebbero le opinioni favorevoli alla prescrizione acquisitiva), viene ammesso ogni mezzo di prova, ivi compreso quello testimoniale (che il nostro sistema giuridico considera sempre quale residuale).
Ma, proprio per la sua caratteristica, la prova testimoniale richiede alcune connotazioni che discendono dalla costituzione stessa dell’istituto.

Dovendosi provare la vetustas, la conoscenza asserita dai testimoni richiede una particolare “qualificazione” rafforzata, sviluppata da prammatica, dottrina e giurisprudenza: essi, allora, debbono almeno aver compiuto 50 anni di età.
In tale sede (solo giudiziale), la prova, sempre ricordando l’Art. 483 Cod. Penale, potrebbe essere fornita mediante atto notorio, (quello vero, da non confondere con la semplice dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ex Art. 47 D.P.R. n. 445/2000, ma già qui si potrebbe evidenziare una prima, stridente contraddizione con l’art. 30 comma 2 L. n. 241/1990 se la procedura in esame fosse interna agli uffici comunali, con dimostrazione del diritto in via amministrativa, siccome la prefata norma vieta alle pubbliche amministrazioni, ma ovviamente non ai Tribunali, di domandare l’atto di notorietà, in luogo di quello sostitutivo ) resa dal dichiarante e da quattro testimoni, estranei rispetto al dichiarante stesso, i quali, oltre ad aver contezza diretta del godimento di fatto dello Jus Sepulchri, dovrebbero presentare, appunto, anche la caratteristica di essere ultracinquantenni e, con l’ulteriore precisa cognizione, che della stessa situazione giuridica fossero a incontestabile conoscenza anche i loro più prossimi ascendenti (i genitori).
Questa linea di continuità è richiesta per l’esigenza che la memoria con cui si suffraga la carenza del titolo sia tale da indurre ad una positiva constatazione circa l’affermarsi della vetustas.

In tema al numero dei testimoni, si esprime l’avviso che questi potrebbero, ormai, essere ridotti a due unità, per effetto dell’art. 30, comma 1 L. 7 agosto 1990, n. 241 e succ. modif., mentre non sono proprio superabili le altre qualità personali richieste per i testi.
Inoltre, trattandosi di dover dare riscontro probatorio di un rapporto che ha caratteristica ancipite, e, dunque, in parte, anche negoziale o comunque para-contrattuale, perché si colloca sul sottile crinale (qualcuno parla di un “mix” inscindibile, quasi fosse una sorta di “connubio funerario”) tra il diritto privato ed il diritto pubblico (art. 823, comma 2 Cod.Civile) deve escludersi che a prova sia data nella forma della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, esulandone essa dall’oggetto, mentre è decisamente necessario il normale atto di notorietà, la cui spettanza nell’accogliere il giuramento è individuabile o nel notaio, ai sensi dell’art. 1, comma 2, n. 2 l. 16 febbraio 1913, n. 89 e succ. modif., oppure, probabilmente anche, nel pretore (oggi, giudice unico, monocratico, dopo il D. Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51) o nel cancelliere da questi delegato (art. 8 L. 23 marzo 1956, n. 182).

Dopo questo lungo, necessario preambolo, funzionale all’inquadramento dogmatico generale di questa insolita (arcaica?) figura giuridica, valida a prescindere da una regolamentazione o meno (anche nel senso che, laddove questa fosse adottata in ogni caso prevarrebbe l’accertamento giudiziale), va affrontata la sciarada se il regolamento comunale possa disegnare capillari procedimenti di traduzione dell’istituto dell’immemorabile in un reale e praticabile percorso amministrativo.
Pur ribadendo l’affermazione apodittica secondo cui un eventuale giudicato, pure se in senso discordante o, peggio, contrario, s’imporrebbe sempre e comunque, anche su di un parallelo iter amministrativo, è da ritenere che il regolamento comunale possa definire procedure amministrative di attuazione, ma non modificare gli elementi di sostanza dell’istituto, in considerazione della particolarità dello stesso e del suo ruolo in termini di “prova” di un diritto già sussistente, piuttosto che di fonte, in qualche modo, costitutiva di un diritto del tutto nuovo.

Quest’ultima fattispecie appare del tutto estranea all’istituto stesso, ben diversamente dall’usucapione nella quale il decorso del tempo produce, in concorrenza con le altre condizioni necessarie, il sorgere di un diritto ex novo (a titolo originario), e quindi laddove il termine costituisce elemento (anzi, co-elemento) di acquisto del diritto.
Nell’immemoriale questa acquisizione non agisce, anzi ad esso è del tutto estranea, e solo il tempo assume rilievo come elemento probante – presuntivamente – la sussistenza del diritto, quasi in funzione succedanea e vicariante rispetto alla deficienza del titolo primitivo.
Se è consentita un’esemplificazione, o un parallelismo, in altro campo operativo, si pensi, allora, alla casistica regolata dall’art. 452 Cod. Civile (e dall’ art. 132 Cod. Civile.), nonché alla connessa procedura normata dal Titolo XI D.P.R. n.396/2000, le quali, poi, in ultima istanza, attendono, entrambe, alla reintegrazione dei titoli di stato che risultino andati distrutti o perduti.

L’immemoriale è l’istituto che svolge la funzione di surrogazione e ripristino di un titolo che materialmente non c’è nel momento attuale in cui, solitamente, il giudice dichiara l’accertamento della sussistenza del diritto, ma che si presume esservi stato, o comunque ristabilisce un diritto finalmente comprovato da un titolo idoneo per tabulas, conferendogli nuovamente “piena cittadinanza” nel mondo del diritto, in una prospettiva di certezza ordinamentale.
Per altro, non sono stati mancati orientamenti più aperturisti per un impiego, seppur eccezionale, dell’istituto dell’immemoriale al di fuori degli usuali strumenti di prova in giudizio, ipotizzando la facoltà di un suo uso in un semplice procedimento amministrativo, governato a questo punto dalla L. n.241/1990, che diventerebbe così alternativo, ma non sostitutivo, al normale appuramento giurisdizionale dell’esistenza del diritto esercitato senza titolo, contando, ratione materiae, sulla potestà regolamentare dei comuni, oggi non più derivante unicamente da norma di rango primario (Art. 13 D.Lgs n. 267/2000), quanto dalla Costituzione (art. 117, comma 6 III Periodo Cost., così come novellato dalla Legge di Revisione Costituzionale n. 3/2001 purché “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni … attribuite”).

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Carlo Ballotta

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