Il testo integrale della prolusione del Cardinale Bagnasco all’assemblea della CEI di Assisi

Pubblichiamo il testo integrale della Prolusione del card. Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, in apertura dei lavori della 60a Assemblea generale della Conferenza Episcopale Italiana (Assisi, 9 – 12 novembre 2009)

Venerati e Cari Confratelli,

riprendiamo a distanza di quattro anni la serie delle assemblee autunnali, nelle quali siamo soliti concentrare la nostra attenzione su particolari problematiche di forte rilievo pastorale. Il carattere residenziale di questo tipo di incontro faciliterà la coralità della nostra preghiera e la circolarità dei contatti personali che rappresentano una singolare declinazione di quella collegialitas affectiva che già unisce tutti i Vescovi in un unico corpo apostolico e che è ulteriormente cresciuta negli ultimi tempi.

Fin d’ora esprimiamo la nostra gratitudine ai Frati Minori che gentilmente ci ospitano in questa Domus Pacis e in edifici adiacenti, e alle Suore Francescane Missionarie di Gesù Bambino che a questa ospitalità cooperano con tanta premura. Ma un grazie tutto speciale dobbiamo al Pastore di questa bella Chiesa di Assisi, monsignor Domenico Sorrentino, e gli assicuriamo il nostro ricordo per lui e per il popolo affidato alle sue cure. Con deferente affetto inviamo un saluto al Nunzio Apostolico in Italia, l’arcivescovo Giuseppe Bertello, che non può essere presente per una piccola indisposizione, e lo ringraziamo cordialmente per il messaggio del Santo Padre di cui è latore e per quello suo personale.

All’inizio dei nostri lavori salutiamo i Vescovi che, nei mesi trascorsi dall’ultima Assemblea Generale, il Santo Padre ha eletto all’Episcopato e chiamato a far parte della nostra Conferenza:

– S.E. Mons. Guerino Di Tora, Vescovo ausiliare di Roma;

– S.E. Mons. Giuseppe Marciante, Vescovo ausiliare di Roma;

– S.E. Mons. Raffaello Martinelli, Vescovo di Frascati.

A loro si aggiungono due Presuli che provengono dal servizio alla Santa Sede:

– S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo – Vescovo di Trieste;

– S.E. Mons. Renato Boccardo, Arcivescovo di Spoleto – Norcia.

Affidiamo con fiducia il loro ministero al Signore, grati del contributo che vorranno recare alla nostra Conferenza Episcopale, nella comunione delle Chiese d’Italia.

Sono stati annoverati fra gli emeriti:

– S.E. Mons. Enzo Dieci, Vescovo già ausiliare di Roma;

– S.E. Mons. Luca Brandolini, Vescovo emerito di Sora – Aquino – Pontecorvo;

– S.E. Mons. Giuseppe Matarrese, Vescovo emerito di Frascati;

– S.E. Mons. Eugenio Ravignani, Vescovo emerito di Trieste;

– S.E. Mons. Pietro Brollo, Arcivescovo emerito di Udine;

– S.E. Mons. Francesco Sgalambro, Vescovo emerito di Cefalù.

Mi sia consentita una parola di speciale ringraziamento nei confronti di S.E. Mons. Giuseppe Chiaretti, Arcivescovo emerito di Perugia – Città della Pieve, già Vice Presidente della nostra Conferenza Episcopale, sulla cui attenta e competente collaborazione ho potuto costantemente contare in questi anni.

Consegniamo, infine, alla misericordia del Signore i Confratelli che in questi ultimi mesi hanno concluso il pellegrinaggio terreno:

– S.E. Mons. Angelo Rizzo, Vescovo emerito di Ragusa;

– S.E. Mons. Giovanni Melis Fois, Vescovo emerito di Nuoro;

– S.E. Mons. Libero Tresoldi, Vescovo emerito di Crema;

– S.E. Mons. Antonio Rosario Mennonna, Vescovo emerito di Nardò, decano dell’Episcopato italiano.

La specificità di questo incontro mi induce a proporre una riflessione di avvio che probabilmente non segue il ritmo consueto, per piegarsi maggiormente ai temi che attendono il nostro esame. Spero con ciò di rendermi utile a quel comune compito del discernimento cristiano che è condizione per poter proficuamente affrontare le questioni inerenti alla vita e alla missione della Chiesa pellegrina in Italia.

1. Una certa risonanza ha avuto nelle settimane scorse, ma assai di più ne avrebbe meritato, l’annuncio choccante che sette nostri fratelli cristiani sono stati orribilmente uccisi nel Sudan meridionale in una macabra parodia della crocifissione. Erano giovani dai quindici ai vent’anni, e sono stati strappati alle loro famiglie mentre pregavano in chiesa, il che documenta una volta di più la drammatica situazione di quella regione alle prese con una recrudescenza di instabilità sociale nella quale si innestano i raid condotti da ribelli armati provenienti da Paesi vicini. Il tipo di supplizio non può non impressionare, a duemila anni di distanza da quello impareggiabilmente patito dal Signore Gesù, vittima innocente per i peccati del mondo. La notizia ha comprensibilmente impressionato l’assemblea speciale del secondo Sinodo per l’Africa riunitasi in Vaticano dal 4 al 25 ottobre scorso, e ha non poco contribuito a collegare nei nostri pensieri quell’incontro all’epopea apostolica, rafforzando il carattere di profezia che lo stesso incontro è andato svelando agli occhi dell’intera comunità ecclesiale. Davvero anche il nostro è tempo di martiri, per quanto ai popoli della libertà talora sprecata possa sembrare incredibile, e quasi impossibile. Sappiamo per altro che il sacrificio della vita è ogni anno richiesto a un numero elevato di operai del Vangelo. Nel suo Messaggio per la recente Giornata Missionaria mondiale, Benedetto XVI spiegava: «La Chiesa si pone sulla stessa via e subisce la stessa sorte di Cristo, perché non agisce in base ad una logica umana o contando sulle ragioni della forza, ma seguendo la via della Croce e facendosi, in obbedienza filiale al Padre, testimone e compagna di viaggio di questa umanità» (n. 4). Ed è per questo motivo che, guardando negli occhi quanti incontra sul proprio cammino, la Chiesa sa di non agire «per estendere il suo potere o affermare il suo dominio, ma per portare a tutti Cristo, salvezza del mondo. Noi – aggiungeva – non chiediamo altro che metterci al servizio dell’umanità, specialmente di quella più sofferente ed emarginata» (cfr ib., introduzione).

Non pochi insegnamenti ci sono pervenuti dalla cronache di quella assise nei termini sia di una innegabile freschezza evangelica sia di intraprendenza di strade nuove, in particolare su quella frontiera della riconciliazione che era uno dei poli tematici del sinodo. Per ragioni storiche come per i drammi politici recenti, l’Africa ha bisogno di ritrovarsi attorno al focolare del perdono e del rinnovamento, come condizione indispensabile di ogni dinamismo aperto al futuro. E le testimonianze offerte all’assemblea sono state effettivamente impressionanti: esse hanno, com’è noto, le migliori interpreti nelle donne d’Africa, «spina dorsale» del continente su cui maggiormente pesano i passi dell’esodo dai conflitti, come dalla miseria di cui i conflitti sono portatori. Una riconciliazione che – è stato detto da una testimone – «non consista tanto nel rimettere insieme persone o gruppi, quanto nel rimettere tutti in contatto con l’amore e lasciare che avvenga la guarigione interiore». Su questo punto è avvenuta, pare a me, la saldatura più alta tra quelle esistenze redente e l’annuncio del Vangelo che non è «una filosofia […] ma un modo di vivere, […] è carità, è amore. Solo così diventiamo cristiani: se la fede si trasforma in carità, se è carità» (Benedetto XVI, Meditazione all’Ora Terza, 5 ottobre 2009).

2. Per i cittadini e i Paesi del Nord del mondo, il recente Sinodo sull’Africa doveva essere l’occasione propizia per una disinteressata disamina delle proprie responsabilità. Così ci saremmo potuti scuotere dall’apatia con cui generalmente si guarda a quel grande Continente che a troppi fa comodo mantenere in una indegna subalternità. Chi non sente oggi il desiderio di uscire finalmente dai luoghi comuni infarciti di stucchevole pietismo? Parole forti infatti sono state pronunciate sui «tossici rifiuti spirituali» che le regioni ricche della terra scaricano sulle povere, sui conflitti armati dovuti, più che al tribalismo, all’ingordigia delle multinazionali protese ad uno sfruttamento in esclusiva delle risorse strategiche, e su certo colonialismo «finito sul piano politico» ma «mai del tutto terminato» sul piano culturale ed economico. Parole forti, dicevo, che forse hanno avuto un ascolto debole, anche per il rilancio troppo flebile che i media internazionali hanno riservato a questo appuntamento. Che andava e va tuttavia accostato con l’atteggiamento di simpatia di cui si è fatto ad esempio interprete il Papa quando, all’avvio dei lavori, ha parlato dell’Africa come della terra «depositaria di un tesoro inestimabile per il mondo intero: il suo profondo senso di Dio». Un tesoro da preservare rispetto al materialismo pratico che, combinato con il pensiero relativista e nichilista, costituisce la pericolosa patologia di cui è prodigo l’Occidente. Certo, l’Africa rappresenta un «polmone spirituale» per «un’umanità in crisi di fede e di speranza». La forza straordinaria della mentalità africana è di essere, con la sua prorompente spiritualità popolare, la sua istintiva fede nel Dio creatore, la sua sbalorditiva attitudine religiosa, una costante provocazione per tutti i sazi e i distratti del mondo cosiddetto sviluppato. E se sugli africani pesa il compito – sono parole di Papa Benedetto – di «razionalizzare la fede» cercando di far emergere una riflessione culturale molto spesso sommersa e sopita, c’è da augurarsi che essi stessi arricchiscano la loro coscienza critica, indispensabile per uscire dalle situazioni di corruzione e di degrado che una spesso esosa classe dirigente, magari alleata con le potenze straniere, sta loro infliggendo.

La mancanza di cibo continua ad essere il flagello principale dell’Africa, mentre raggiungere la sicurezza alimentare resta l’obiettivo primario, specialmente in tempi di crisi economica. «La Chiesa si impegna – ha affermato il Papa al momento del congedo dei Padri sinodali – anche ad operare, con ogni mezzo disponibile, perché a nessun africano manchi il pane quotidiano» (Omelia per la Conclusione della II Assemblea speciale per l’Africa, 25 ottobre 2009). Non è un caso che proprio quello della sicurezza alimentare sia il tema della Giornata mondiale dell’Alimentazione in calendario per il prossimo 16 novembre, giorno in cui Benedetto XVI si recherà a far visita alla sede della FAO, in Roma, dove inaugurerà un vertice mondiale dei capi di Stato e di governo, e dove si è fatto precedere da un Messaggio in cui avverte che l’«accesso al cibo», prima di essere un «bisogno elementare», è «diritto fondamentale delle persone e dei popoli». Citando la Caritas in veritate, il Santo Padre segnala come il dramma della fame potrà essere superato solo «eliminando le cause strutturali che lo provocano e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci di utilizzare al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a livello locale» (n. 27). Dal punto di vista scientifico ormai è assodato che il fenomeno della fame non dipende tanto dalla scarsità materiale delle risorse quanto da fattori sociali e istituzionali, ai quali occorre volersi applicare senza ulteriori esitazioni. Nell’arco di alcuni decenni bisognerà saper procurare il 70 per cento di cibo in più se si vuole non far trovare la credenza vuota quando la popolazione mondiale sfiorerà – a metà del secolo – i nove miliardi di persone. Ricordiamo con il Papa che «la via solidaristica allo sviluppo dei popoli» è di per sé non una complicazione ma «un progetto di soluzione della crisi globale in atto» (ib.), dunque un traguardo perseguibile dalla volontà politica dei cittadini e dei governi. «La globalizzazione – ha aggiunto Benedetto XVI domenica 25 ottobre – è una realtà umana e come tale è modificabile secondo l’una o l’altra impostazione culturale» (Omelia cit.). Dunque, non è eticamente autorizzato alcun atteggiamento fatalista.

Il nostro Paese, con la sua esposizione geografica, quasi a ponte tra Nord e Sud del mondo, è chiamato a rinvigorire la propria tradizionale apertura ai popoli africani, aiutandoli anzitutto a promuovere il loro sviluppo interno, e trovando le formule più adeguate per un partenariato in grado di onorare la nostra e altrui dignità. Dal punto di vista etico-culturale desideriamo che i nostri cristiani si sentano cittadini del mondo, corresponsabili della sorte degli altri. In questo senso, ai media che hanno vita dalle nostre comunità è chiesto di continuare a svolgere un importante ruolo di informazione e quando serve di contro-informazione. A livello ecclesiale, il dinamismo ad gentes resterà un dato qualificante l’intera nostra pastorale, una visione di Chiesa che si traguarda sempre con gli altri, e mai senza di loro. Quella che ci attende insomma è una missionarietà realmente più consapevole. Tale peraltro è l’ansia genuina che sentiamo premere nel cuore (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 18 ottobre 2009), un’ansia che scaturisce non da insoddisfazione ma dalla gioia: «Essa – anche senza volerlo – possiede una forza missionaria. Suscita infatti negli uomini la domanda se non si trovi forse veramente qui la via, se questa gioia non guidi forse effettivamente sulle tracce di Dio stesso» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione Eucaristica con il circolo degli ex-alunni del Santo Padre, Castel Gandolfo, 30 agosto 2009).

3. La chiave missionaria mi pare la più indicata anche per comprendere l’iniziativa che nelle ultime settimane ha preso configurazione nei riguardi dei fratelli – chierici e fedeli – anglicani che da tempo chiedevano di entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica. Allorché si era trattato di impostare correttamente la questione del reintegro nella comunione ecclesiale dei vescovi lefebvriani, il Papa precisò: «Il vero problema, in questo momento della storia, è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamenti, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più» (Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo 2009). Ebbene, per le modalità in cui è maturata ed è stata anche annunciata l’iniziativa oggi riguardante gli anglicani, e per la sapienza che complessivamente la ispira, non possiamo non vedervi riflessa l’impronta dell’attuale Pontefice, indomito e dolce, coraggioso e illuminato. L’aver disposto, con innovazione anche canonica, che siano istituiti degli appositi Ordinariati personali così che quanti entrano nella piena comunione cattolica, accettando dunque anche il ministero petrino come elemento voluto da Cristo, conservino nel contempo elementi dello specifico patrimonio spirituale e liturgico, appare effettivamente una scelta «ragionevole» per andare incontro «in modo unitario ed equo», cioè equilibrato, alle richieste pervenute. Vediamo qui applicato il principio paolino: «Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5), chiariva il cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede; la nostra comunione lungi dall’essere minacciata, viene come «rafforzata da simili diversità legittime, e siamo pertanto felici che questi uomini e donne offrano il loro contributo particolare alla nostra comune vita di fede». In questo senso si inquadrano le novità connesse a tale decisione che, è già stato autorevolmente affermato e tutto lascia prevedere, non comprometterà il prosieguo del dialogo interconfessionale. Tutt’altro, dunque, che una decisione scaturita da un indebolimento, ma piuttosto la felice applicazione di quanto Papa Benedetto chiedeva nella citata Lettera ai Vescovi cattolici: perché mai «non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede?». Diciamo che, nella circostanza data, c’è qualcosa di illuminante circa l’effettiva volontà («impegno primario») della Sede Apostolica – volontà su cui taluno ciclicamente dubita – di operare nel senso della «purificazione della memoria», lavorando «senza risparmio di energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo» (Benedetto XVI, Primo Messaggio ai Cardinali elettori in Cappella Sistina, 20 aprile 2005). Non ci resta dunque che ringraziare il Santo Padre per l’iniziativa intrapresa, che – ne siamo certi – non mancherà di produrre frutti positivi.

E grazie vogliamo dirgli per la visita che proprio ieri ha compiuto a Brescia, terra natale di Paolo VI, e in particolare per la visione di Chiesa, «povera e libera» che ha voluto offrirci. D’altra parte, non si condensa forse nell’amore alla Chiesa l’eredità più significativa del grande Pontefice bresciano? «Come non vedere – chiosava Benedetto XVI – che la questione della Chiesa, della sua necessità nel disegno di salvezza e del suo rapporto con il mondo, rimane anche oggi assolutamente centrale?» (Omelia in Piazza Paolo VI, Brescia, 8 novembre 2009).

4. La stessa ermeneutica della missione ci aiuta a collocare nella prospettiva più consona l’Anno Sacerdotale che ormai ferve nelle nostre Chiese. Il sacerdote di questo inizio del terzo millennio cristiano è, nella sua identità più profonda, uguale al sacerdote di sempre, quello scaturito dal Cenacolo, ossia la ripresentazione sacramentale di Gesù sacerdote, il segno visibile che Cristo ha lasciato di se stesso come capo e come buon pastore, che dà la vita per le sue pecore (cfr Gv 10, 11). La meditazione sulla figura del Santo Curato d’Ars ci fornisce gli elementi per capire che essa è intagliata nella sostanza viva del sacerdozio cattolico, quella che non passa mai di moda, non deperisce né sbiadisce, non invecchia perché previene i tempi, appartenendo a tutti i tempi. E tuttavia ogni epoca ha in qualche modo il diritto di caricare la figura del prete di attese specifiche. E allora diremo che, nella società contemporanea, il sacerdote è chiamato ad essere, più di sempre, uomo dello spirito, ossia l’uomo che si affida anzitutto non alla ricerca di forme pastorali meglio adeguate, o a qualche raffinata scienza accademica, o ad un’organizzazione efficiente del tempo, ma ad uno scavo, ad un approfondimento inesausto, ad un’adesione interiore e amata all’essenziale della propria missione: se dovesse mancare, anche le metodiche più raffinate resterebbero inefficaci. Il sacerdote deve trovare la sorgente della santità nell’oggetto del suo sacerdozio, nella carità pastorale di cui la sua missione è come impregnata. Allora non cercherà evasioni, né cercherà compensazioni, ma sarà pago della missione che incombe sulla sua anima, e la farà fiorire nella sua personalità. E in questo processo di identificazione tra l’evento interiore e i modi esteriori, egli diventa l’uomo dello spirito, che vince sulle costrizioni della materia. «La grande sventura di noi parroci – diceva Giovanni Maria Vianney – è che l’anima si intorpidisce». Ogni vero prete non si tira indietro rispetto alla missione, e questo – a ben guardare – è tipico della figura sacerdotale che nei secoli ha preso forma nel nostro Paese. Sia che stiano nel tempio, sia che visitino le famiglie – specialmente nella benedizione annuale – sia che animino le attività pastorali, i nostri sono sacerdoti che si sentono mandati a tutti, destinati a tutti, anche ai non frequentanti, anche a coloro che sono tiepidi o freddi rispetto all’appartenenza religiosa, e per questo loro slancio devono sapere di essere da noi Vescovi ringraziati, sostenuti, ammirati. Nel testo indirizzato ad ogni sacerdote all’inizio di questo anno speciale, Benedetto XVI ricorda come il Santo Curato d’Ars, che pure si poteva intendere in un certo qual senso trasferito di abitazione nella sua chiesa, era però capace di «abitare attivamente tutto il territorio della sua parrocchia» (Lettera per l’Anno sacerdotale, 16 giugno 2009). Direi che qui c’è un tratto caratteristico del modello – se l’espressione può passare – del sacerdozio pastorale, del prete cioè che considera propria una missione coestesa a tutto il territorio a lui affidato. Non è l’uomo consacrato che semplicemente custodisce la sacralità del tempio, e colà attende che il popolo arrivi secondo rigidi orari, pur se proprio lì esercita un ruolo unico e indispensabile; egli è l’uomo conquistato da Dio per accompagnare e magari sorprendere gli abitanti del suo territorio là dove vivono, per andarli a trovare, a cercare, a scovare. In questo è, ad un titolo speciale, immagine di quel Padre che non si dà pace finché non fa sentire ciascuno dei suoi figli amati e desiderati, amati e rincorsi, amati e infine ritrovati. Essere prete è la vocazione di chi sta accanto alla propria gente come testimone di misericordia. Senza la percezione della divina misericordia, infatti, gli uomini di oggi non sopportano la verità. Per questo Cristo vuole la Chiesa maestra e madre! In un mondo dell’efficienza e privo di misericordia, ciascuno tende ad auto-giustificarsi e magari ad accusare gli altri. Fino a quando non scopre di essere già raccolto nel palmo della mano di Dio, e tenuto stretto al suo cuore divino. Già, il sacerdote è l’uomo del cuore, ne conosce gli abissi, e così diventa lo specialista di Dio. Sa cioè coltivare «quella “scienza dell’amore” che si apprende solo nel “cuore a cuore” con Cristo. […] Proprio per questo noi sacerdoti non dobbiamo mai allontanarci dalla sorgente dell’amore che è il suo Cuore trafitto sulla croce. E solo così saremo in grado di cooperare efficacemente al misterioso “disegno del Padre” che consiste nel “fare di Cristo il cuore del mondo”» (Benedetto XVI, Omelia per l’apertura dell’Anno Sacerdotale, 19 giugno 2009).

5. Una delle situazioni nelle quali un sacerdote in cura d’anime maggiormente vive l’afflato missionario è quella che riguarda la morte di qualche componente la comunità cristiana, evento ricorrente nella dinamica di una vita parrocchiale. Non a caso noi Vescovi stiamo sottolineando la circostanza della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie con l’intendimento di volerne esplicitare le virtualità di annuncio rispetto alla novità portata da Cristo Gesù dinanzi al mistero della morte (cfr Gv 11,23-26). Questo mese di novembre, poi, è contrassegnato proprio dalla memoria per i fedeli defunti. L’Ottavario dei Morti, connesso con la Commemorazione dei Fedeli defunti, in calendario per il giorno 2 novembre, all’indomani cioè della Solennità di Tutti i Santi, resiste come formula tutt’altro che superata non solo per una preghiera più intensa, ma anche per una catechesi meglio centrata sull’esito finale della vita umana. Mi pare infatti che oggi sia diffusa la consapevolezza dell’urgenza di aiutare i nostri fratelli a pensare in maniera meno evasiva alla prospettiva dell’appuntamento con la morte come di una tappa non estirpabile dall’orizzonte concreto, comunque incombente sulla vita di ciascuno. E come la frequentazione di ambienti ospedalieri potrebbe talora rivelarsi quanto di più educativo per interiorizzare la fragilità connessa alla vita, così la capacità di vivere l’appuntamento con «sorella morte», allorché essa si materializza di fianco a noi, è un segno di intelligenza e un modo prezioso per imparare a vivere davvero. Capita sovente di trovarci a riflettere sulla tendenza a considerare privatisticamente anche l’esperienza della morte. L’individualismo, che è cifra marcata di questa post-modernità, raggiunge ai limiti della vita una delle sue esasperazioni più impressionanti. Anche quando la maschera della morte scende sul volto dei propri cari, dunque si fa più prossima e meno facilmente evitabile, anche allora non di rado si tende a rimuovere l’evento, a scantonarlo, a scongiurare ogni coinvolgimento. Il fenomeno determina la pratica sparizione dell’esperienza della morte e di ogni suo simulacro dalla scena della vita. Va da sé che la comunità cristiana non possa avallare una tale cultura così irreale: nascondere la morte e dimenticare l’anima non rende più allegra la vita, in genere la rende solo più superficiale. Contribuire, per la nostra parte, a mimetizzare la morte, affinché il suo pensiero non turbi, significa favorire anche pastoralmente un approccio scandito per lo più dalla fretta e dal formalismo. Invece, una perdita drammatica può essere l’occasione per lasciar emergere interrogativi, per costringere i protagonisti ad addentrarsi nei meandri scomodi del mistero, a sperimentare la crisi delle proprie certezze e delle proprie esuberanze, a meditare sulla possibilità di dare un’impronta diversa al resto della propria esistenza. Certo, occorre la prontezza e l’abilità di saper porre rimedio alle immagini imprecise con cui talora viene immaginato Dio, di raddrizzare le imputazioni di cui lo si carica a spiegazione dell’imponderabile. Sono i momenti nei quali ci si rende conto di una certa insufficienza catechistica, e anche dell’influenza di talune visioni spurie o paganeggianti. L’annuncio del Dio vero, amante della vita, che non fa scherzi macabri, il richiamo che con la morte la vita non è tolta ma trasformata, e che chi è vocato all’altra sponda non ci viene sottratto ma resta a noi più vicino di prima e ci attende: ecco ciò di cui c’è bisogno, in una cultura che progressivamente sembra slittare verso forme post-cristiane: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza: le creature del mondo sono sane, in esse non c’è il veleno della morte» (Sap 1,13). Ma questo implica pure che nella pastorale ordinaria noi riusciamo a far passare l’idea che comportarsi bene non è di per sé una garanzia contro il dolore e la morte. Gesù ha imparato «l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto» (Eb 5,8-9) ha attuato un’opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Infatti, per stare in mezzo ai figli dell’uomo, il Dio cristiano ha scelto la via del Figlio prediletto che si incarna nella povertà e muore in croce, lui il Giusto per gli ingiusti: questo è il paradigma che spiega e salva. «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (Sap 2, 23-24); questi infatti è «omicida fin dall’inizio» (Gv 8,44). A partire da qui, con l’aiuto indispensabile della Parola e dei Sacramenti, noi abbiamo la possibilità di veder trasformati il lutto e la sofferenza in una visione più realistica e autentica dell’esistenza, fino ad intravedere la paternità di Dio e la sua misteriosa provvidenza, a sperimentare mediante un itinerario anche accelerato – quale la morte talora induce a compiere – la grazia nella disgrazia. Ma per questo ci vogliono pastori pronti e non evasivi, comunità cristiane vive, reattive, affettivamente coinvolgenti, che non tacciono sull’interezza del disegno che Dio va dispiegando. Morte, giudizio, inferno e paradiso sono termini non ignoti, non silenziati, non spiegati secondo categorie falsamente buoniste o erroneamente crudeli. Rappresentano invece il traguardo da lumeggiare con la Parola risanatrice di Dio, senza fatalismi o sotterfugi scaramantici. Sono tappe di una vita che va oltre la morte (cfr 2Cor 4,14) e sfocia nella vita eterna. Ciò che saremo non sappiamo descriverlo, ma esiste. «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano» (1Cor 2,9). Ecco l’annuncio sconvolgente: «Dov’è o morte il tuo pungiglione?» (1Cor 15,55; anche Is 25,8 e Os 13,14); e soprattutto: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Ogni dolore nasconde il mistero di un dono, di una medicazione benefica, di una risurrezione. L’idea che la vita sia solo capriccio, solo giovinezza, solo sciupio di salute e di risorse, solo benessere gaio e spensierato, è falsa e assurda anzitutto nell’ottica della storia e della scienza. Dobbiamo bonificare l’immagine della vita per imparare a godere realmente della stessa. Dobbiamo imparare ad invecchiare, per saper contare i giorni e apprezzare i doni, e per non sprecare né gli uni né gli altri (cfr Sal 90,12). Dobbiamo includere anche il camposanto tra i luoghi cari alla famiglia e alla comunità. Saper visitare il cimitero – il luogo dei “dormienti” in attesa della resurrezione finale – e lì pregare, è un modo per bandire il macabro e per esorcizzare il troppo demonismo della nostra cultura. Le nostre parrocchie abbiano sempre il cimitero nel perimetro della loro pastorale ordinaria, in modo che questo non sia un’area separata e ghettizzata, cui rivolgersi una volta l’anno, ma spazio della vita così concretamente trascendente da non affievolirsi mai, santuario della memoria che ci fa vivamente umani, ponte che unisce la comunità cristiana con la comunione dei suoi Santi già presso Dio. Una realtà – quest’ultima – «che infonde una dimensione diversa a tutta la nostra vita» (Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 novembre 2009).

6. Altro argomento di cui ci interesseremo nel corso dei nostri lavori assembleari è l’immagine della Chiesa nella sua proiezione mediatica, su cui naturalmente io non intendo ora fare anticipazioni, salvo che per segnalare che questo tema, se vogliamo, entra nello spettro della estroversione missionaria propria della comunità cristiana. Ed è il motivo per cui la Chiesa, sulla rotta indicata dal Concilio, sceglie di entrare in dialogo con i media e di dotarsi essa stessa di strumenti che la coadiuvino nella sua missione. Ma qui si annidano anche alcuni motivi di sofferenza, ed è proprio la chiave della missione a rilevarli nella loro potenziale consistenza. Non di rado infatti c’è – da una parte – una sottovalutazione del concreto-essenziale nella vita della Chiesa, di ciò che le consente di essere nonostante tutte le resistenze e le avversità, e – dall’altra – la tendenza a far figurare preponderante ciò che non lo è. Quando si trascura o si ignora il quadro delle priorità nel quale si collocano i singoli eventi o pronunciamenti – vuoi del Pontefice, vuoi dell’Episcopato – diventa difficile evitare rappresentazioni parziali o fuorvianti, critiche ideologiche e finanche preconcette, letture volte ad attribuire intenzioni o parole che non hanno motivo di esserci in quei termini. In ogni singola circostanza, alla Chiesa preme, in nome del Vangelo, partecipare alla vita del Paese, e portare il proprio contributo nel libero dibattito culturale e sociale (cfr. Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore dei Paesi Bassi, 2 ottobre 2009), lieta e grata di essere raccontata dai media per gli argomenti che ella attinge dalla fede come dalla ragione.

Nel prossimo mese di dicembre, e precisamente nei giorni dal 10 al 12, si svolgerà, sotto l’egida della nostra Conferenza episcopale, un convegno internazionale su «Dio oggi», che fin d’ora si presenta come un evento di prima grandezza. Non si parlerà di Dio in modo generico o convenzionale ma, storicizzando la riflessione maturata a partire dalla seconda metà del secolo scorso, si tratterà del Dio personale che in Gesù Cristo è venuto incontro agli uomini, interpellandoli nella loro intelligenza e libertà. Non tuttavia un appuntamento soltanto teologico, bensì interdisciplinare, e che oltre alla filosofia interpellerà la problematica cosmologica e quella antropologica, per lambire il linguaggio dell’arte, della musica, della poesia fino al cinema e alla televisione, ossia le varie espressioni in cui è concretamente rilevabile per l’uomo d’oggi l’accoglienza di Dio, per ciò che significa nella sua vita e nella sua visione del mondo. Si spiega così il sottotitolo assai prezioso: «Con lui o senza di lui, tutto cambia». Siamo grati al Comitato per il Progetto culturale, e al suo Presidente, per questa iniziativa che fin d’ora, ne siamo certi, arricchirà tutti, immettendo input nuovi nei circuiti del pensare colto non solo italiano. Se a questo si collega il rapporto-proposta che su «La sfida educativa» è stato di recente pubblicato, e che è ora in via di presentazione nelle singole regioni, si ha un quadro decisamente confortante del lavoro in corso su un crinale decisivo della nostra missione nel Paese.

7. Sono vent’anni che l’Europa, in seguito alla caduta del muro di Berlino, ha ripreso a respirare con entrambi i suoi polmoni, per usare l’immagine cara a Giovanni Paolo II, e a percorrere con nuova parresia tutte le strade dell’Europa ormai libera. Cambiamenti vorticosi si sono succeduti, e difficoltà inedite sono affiorate ad Ovest come ad Est, dove l’elemento della secolarizzazione ha finito con l’imporsi quale denominatore comune più rapidamente di quanto si sia radicato il costume democratico. Sappiamo che alla base del cammino europeo non vi possono essere solo strategie politiche o strutture burocratiche, perché le une e le altre – pur necessarie – non sono sufficienti per scaldare i cuori dei singoli e dei popoli in ordine a quel senso di cordiale appartenenza che è indispensabile per sentirsi comunità. L’idea di un’Europa unita si è fatta largo nella mente e nel cuore dei Padri fondatori congiuntamente alla constatazione di quanto il Vangelo aveva lungo i secoli inciso e scavato nella civiltà del vecchio continente. Al punto che di recente il Papa poteva affermare che: «l’Unione Europea non si è dotata di questi valori ma sono stati piuttosto questi valori condivisi a farla nascere e ad essere forza di gravità che ha attirato verso il nucleo di Paesi fondatori le diverse nazioni che hanno successivamente aderito a essa, nel corso del tempo» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione della Commissione Comunità Europea, 19 ottobre 2009). Questa annotazione non mira certo a riconoscimenti o condizioni di privilegio. Lo diciamo anche a fronte della sentenza alquanto surreale emessa dalla Corte di Strasburgo, a proposito della presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane, nei confronti della quale bene ha fatto il Governo ad annunciare ricorso. Lungi infatti dal minacciare le responsabilità educative della famiglia e quelle laiche di ogni Stato moderno, il crocifisso nella molteplicità dei suoi significati può suggerire solo valori positivi di inclusione, di comprensione reciproca, in ultima istanza di amore vicendevole. Ora, a parte ogni altra valutazione circa il fermo e inalienabile diritto di ciascun popolo alla propria identità culturale (cfr Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore di Bulgaria, 31 ottobre 2009), e dunque al vincolante rispetto del principio di sussidiarietà che deve sovrintendere alla dinamica europea, il sorprendente pronunciamento deve fare riflettere su una certa ideologia che non rinuncia a fare capolino nelle circostanze più delicate della vita continentale, quella di un laicismo per cui la neutralità coinciderebbe con l’assenza di valori, mentre la religione sarebbe necessariamente di parte. Ma una simile posizione, oltre ad essere un’impostura, non è mai stata espressa dalla storia e neppure dalla volontà politica degli europei. C’è piuttosto l’obbligo di registrare qui il tentativo di rivalsa che esigue minoranze culturali, servendosi del volto apparentemente impersonale della burocrazia comunitaria, perseguono sulle libere determinazioni dei popoli. Ma per questa strada si mette fuori gioco se stessi e l’Europa – necessaria a se stessa e al mondo – si allontana sempre di più dalla gente. Di qui la perorazione del Papa: «L’Europa non permetta che il suo modello di civiltà si sfaldi» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione cit.), e insieme un interrogativo: «Cosa potrà accadere se, nell’ansia di una secolarizzazione radicale, finisse per separarsi dalle radici che le danno vita?». Con un’aggiunta lungimirante: «Le nostre società non diventeranno più ragionevoli o tolleranti, ma saranno piuttosto più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per riconoscere quello che è vero, nobile e buono» (Benedetto XVI, Discorso con il Corpo Diplomatico, Praga, 27 settembre 2009). Sradicando l’istanza di verità, si crede di liberare la ragione e invece «essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore praticamente a tutto» (ib). Si ambienta qui l’autocritica che lo stesso Pontefice aveva già proposto in un indimenticato passaggio dell’enciclica Spe Salvi, quello che invoca una reciproca «autocritica dell’età moderna» e del «cristianesimo moderno», particolarmente riguardo alla speranza che essi possono offrire all’umanità (cfr n. 22; cfr anche Benedetto XVI, Discorso Ecumenico, Praga, 27 settembre 2009). E di qui la rinnovata decisione riguardo al ruolo insostituibile delle comunità di fede nella vita pubblica del Continente, come ha con forza richiamato la plenaria del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa nel corso dei suoi due ultimi incontri, di Budapest nel 2008 e di Parigi agli inizi dello scorso mese di ottobre.

8. Quando si parla di valori noi comprendiamo la preoccupazione di chi scorge il rischio sempre insorgente di una certa unilateralità. Rispetto alla quale tuttavia, l’unico antidoto efficace è riconoscere la visione trascendente della persona e la pari dignità di tutti gli esseri umani. Se questo avviene, se cioè tale principio si rivela realmente come il criterio fecondante ogni risorsa e ogni progetto, ecco che si perverrà ad un «giusto e delicato equilibrio fra l’efficienza economica e le esigenze sociali, della salvaguardia dell’ambiente, e soprattutto dell’indispensabile e necessario sostegno alla vita umana dal concepimento fino alla morte naturale, e alla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Capo Delegazione cit.). È questo un modo con cui il Papa ribadisce quelli che sono i valori profondamente radicati nella struttura dell’essere umano e che già prima dell’elezione al soglio pontificio aveva chiamato «i principi etici che per la loro natura e il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono “negoziabili”» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, II.3). E sui quali in seguito sarebbe tornato con una certa insistenza (cfr Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 25 dicembre 2005, nn. 230-232; Discorso ai Partecipanti al Convegno del Partito Popolare Europeo, 30 marzo 2006; Discorso al IV Convegno ecclesiale della Chiesa in Italia, Roma, 19 ottobre 2006). Proprio parlando per la prima volta da Papa all’episcopato italiano, egli precisò che la luce della fede ci fa comprendere in profondità un modello di uomo non astratto o utopico, ma concreto e storico, che di per sé la stessa ragione umana può conoscere; e quando la Chiesa lo ricorda non lavora «per l’interesse cattolico, ma sempre per l’uomo creatura di Dio» (Discorso all’Assemblea Generale della Cei, 30 maggio 2005).Nello sviluppo del discorso antropologico avviato dal suo Predecessore, Benedetto XVI è giunto ora ad identificare il ragionevole «collegamento tra etica della vita ed etica sociale nella consapevolezza che non può avere basi solide una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata» (Caritas in veritate, n. 15). Proprio su questo nesso ci soffermeremo nel corso della nostra assemblea, per cogliere le nuove evidenze scaturenti dal magistero pontificio. Con ciò, ci sentiamo in piena sintonia con il cammino che la Chiesa in Italia è andata compiendo nel dopo Concilio, e in particolare nei suoi grandi Convegni ecclesiali, ogni volta avvalorati dalla parola di Pietro. C’è una consolante continuità tra gli stessi, e ognuno di essi contiene il meglio dell’eredità dei convegni precedenti. Attestarsi sulle consapevolezze emerse in quegli appuntamenti non significa introdurre elementi di rigidità o di intolleranza nel dibattito pubblico. Osserviamo ad esempio che i cosiddetti «principi non negoziabili» sono non l’opposto della flessibilità, ma la condizione di essa. Si può essere flessibili su tutto ciò che chiede una mediazione, da perseguirsi all’occorrenza fino allo spasimo, solo se si sa tenere integro quello che più conta, ciò che è condizione perché il resto avvenga. Forse ogni società non riconosce degli «a priori» che le consentono di affermare se stessa lungo il tempo, di avere un passato, un presente e un futuro? Anche Giovanni Paolo II, parlando al Convegno ecclesiale di Loreto, esortò la nostra Chiesa ad operare in una società diventata ormai pluralista «con umile coraggio e piena fiducia nel Signore» recuperando «un’efficacia trainante, nel cammino verso il futuro» (Giovanni Paolo II, Discorso al II Convegno ecclesiale della Chiesa in Italia, 11 aprile 1985). Indicava già allora una meta certo ardimentosa ma sicuramente non inappropriata o stonata, se si tiene a mente che ogni società ha bisogno di idee-guida etico-culturali per crescere senza perdersi, mantenendosi salda in se stessa. Questa spinta storico-concreta tuttavia può scaturire e verificarsi solo se c’è un’alimentazione continua dell’interiorità, dunque un lavoro assiduo sulla via lunga dell’evangelizzazione e della formazione delle coscienze. La nostra Chiesa non presume di sé, punta solo ad essere fedele: per questo si affida al suo Signore, impegnandosi in una conversione continua, e così risultare – come il Vangelo esige – lievito e luce per la società.

In questa prospettiva, sia consentito esprimere qualche riserva su due problemi. Il primo riguarda il via libera concesso dall’Aifa, infine e nonostante tutto, alla pillola Ru486. Per nessuno la nostra radicale riserva vuol suonare come una mancanza di rispetto o di stima, e tuttavia non possiamo non dire che l’intera operazione volta a rendere fruibile la controversa pillola non ci ha convinto né come cittadini né come pastori. A questo punto, ciascuno naturalmente si fa carico delle proprie responsabilità circa gli effetti concreti sulla salute delle persone che vi ricorreranno ed il rispetto delle condizioni minime che sono state a fatica riconosciute come indispensabili per la sua assunzione. Nello stesso tempo non si potrà non riconoscere, come già fa la legge 194, la possibilità dell’obiezione di coscienza agli operatori sanitari, compresi i farmacisti e i farmacisti ospedalieri, che non intendono collaborare direttamente o indirettamente ad un atto grave. In queste nostre osservazioni non c’è alcuna sottovalutazione del dramma in cui può trovarsi la donna, in particolare quando il pensiero di interrompere la gravidanza dovesse presentarsi per motivi legati alla condizione economica. Chiediamo anzi a ciascuno, uomo o donna, di accettare di farsi carico responsabilmente dei propri atti, specie quando questi coinvolgono esseri innocenti. La seconda questione riguarda la ventilata ipotesi dell’ora di religione islamica. Non è in discussione, come pure si è detto da qualche parte, la libertà religiosa di chicchessia, ma la peculiarità della scuola e le sue specifiche finalità che – in uno Stato positivamente laico – sono di ordine culturale ed educativo. Infatti, l’insegnamento di religione cattolica, com’è noto, non è un’ora di catechismo, bensì un’occasione di conoscenza che si vuole «assicurare» circa quei «principi del cattolicesimo» che «fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano» (Accordo di revisione del Concordato Lateranense, art. 9). Conoscenza che è indispensabile in ordine ad una convivenza più consapevole e matura.

Un auspicio sia consentito esprimere per quanto riguarda i fondi destinati al sistema dell’istruzione non statale, cioè alla scuola libera: ci si augura infatti che le cifre inizialmente previste con decurtazioni consistenti, possano essere prontamente reintegrate in modo da consentire agli enti erogatori dei servizi di mantenere gli impegni già assunti.

9. Un’ultima parola vorrei riservarla al clima politico e mediatico in cui si trova, per la verità non da oggi, il nostro Paese. Si registra infatti un’aria di sistematica e pregiudiziale contrapposizione, che talora induce a ipotizzare quasi degli atteggiamenti di odio: se così fosse, sarebbe oltremodo ingiusto in sé e pericoloso per la Nazione. In ogni caso, si impone una decisa e radicale svolta tanto nelle parole quanto nei comportamenti, diversamente verrebbe prima o poi ad inquinarsi il sentire comune, con conseguenze inevitabili in termini di sfiducia e disaffezione verso la cosa pubblica, e un progressivo ritiro dei cittadini nel proprio particolare. La gente, con i suoi problemi, ha il diritto di cogliersi al primo posto rispetto alle preoccupazioni rimbalzanti dal dibattito sia pubblico che privato. È necessario e urgente svelenire il clima generale, perché da una conflittualità sistematica, perseguita con ogni mezzo e a qualunque costo, si passi subito ad un confronto leale per il bene dei cittadini e del Paese intero. Davvero ci piacerebbe che, nel riconoscimento di una sana – per quanto vivace – dialettica, inseparabile dal costume democratico, si arrivasse ad una sorta di disarmo rispetto alla prassi più bellicosa, che è anche la più inconcludente. Ci rendiamo conto che il compito esige sì da parte di ciascuno un supplemento di buona volontà come di onestà intellettuale, ma anche il superamento di matrici ideologiche che sembrano talora rigurgitare da un passato che non vuole realmente passare.

Le tragedie per cause naturali che ciclicamente colpiscono il territorio nazionale – come non andare ancora una volta col nostro pensiero all’Abruzzo e a Messina? – invocano una disponibilità da parte di tutte le forze politiche a scelte risolutive sulle annose questioni che rendono debole il sistema-Italia, sistema che invece oggi come non mai dovrebbe rivelarsi scattante per cogliere al balzo i cenni di uscita dalla crisi e potenziarli, così da accorciare le sofferenze che la situazione dell’economia mondiale ha finito per scaricare sulle categorie più deboli, specialmente sul fronte del posto del lavoro. Il Paese deve tornare a crescere, perché questa è la condizione fondamentale per una giustizia sociale che migliori le condizioni del nostro Meridione, dei giovani senza garanzie, delle famiglie monoreddito. Il nostro popolo, che tanti sacrifici ha affrontato e affronta, gradirebbe davvero uno scatto in avanti nel segno della risolutezza e del superamento delle campagne denigratorie come delle polemiche strumentali. Ciascuno, ripeto, è chiamato in causa in quest’opera d’amore verso l’Italia: è una responsabilità grave che ricade su tutti, in primo luogo sui molti soggetti che hanno doveri politico-amministrativi, economico-finanziari, sociali, culturali, informativi. La Chiesa è presente con la parola del Vangelo che da un capo all’altro del Paese risuona come un continuo richiamo e un lieto annuncio. Una creatività operosa, una collaudata professionalità, una generosità solidale qualificano solitamente l’apporto italiano ovunque si esplichi nel mondo, ben oltre gli stereotipi ingenerosi. Dobbiamo essere fieri e grati per quanto le generazioni precedenti la nostra hanno fatto con ammirevole spirito di sacrificio e senso di grande responsabilità, avendo nel cuore non solamente il miglioramento delle loro condizioni di vita, ma anche il desiderio di consegnare ai propri figli un futuro più vivibile e degno, impostato sul benessere come su valori morali autentici e solidi. Sono questi, infatti, che formano l’anima di un popolo, la sua identità profonda. Che inducono a quel senso di appartenenza che agisce sull’intelligenza e sul cuore, creando dunque cultura e storia. E consentendo a ciascuno di sentirsi parte di un «noi». A cominciare da qui si genera una coscienza comune in grado di superare gli interessi particolaristici, e si sprigionano energie insospettate insieme a slanci di generosità e dedizione che arricchiscono le persone prima ancora che la comunità. Questo patrimonio, senza il quale non esiste popolo ma solo un incrocio di destini individuali talora anche confliggenti, non può essere sciupato né progressivamente eroso per ragioni solo apparenti e magari speciose. La nostra Chiesa non si riconosce in una «religione civile» a servizio di qualche potere, ma si identifica nella missione che le è stata affidata, quella di annunciare a tutti il mistero di Cristo con le implicazioni che ne conseguono sul piano antropologico, etico, cosmologico e sociale. A questo titolo partecipa alla costruzione della città terrena, testimoniando la fede che salva ed eleva l’umano in tutte le sue potenzialità. Come credenti, anche pagando di persona, non cesseremo di gettare ponti a superamento dell’intolleranza e dell’incomunicabilità, senza mai stancarci di riannodare, a partire da ogni territorio, relazioni fondate sulla riconciliazione e sulla fraternità (cfr Benedetto XVI, Discorso all’Udienza del Mercoledì, 14 ottobre 2009).

Grazie, Confratelli cari, del Vostro paziente ascolto e ora dei Vostri attesi contributi. Ci affidiamo alla preghiera e all’amicizia dell’uno verso l’altro, per rispondere insieme alla richiesta di amore che ci viene in vari modi rivolta. Chiediamo allo Spirito di illuminare i nostri pensieri e guidare le nostre deliberazioni. Maria Santissima, nostra dolce Madre, San Francesco d’Assisi e Santa Chiara, i Santi patroni delle nostre Chiese intercedano per noi e per queste nostre giornate.

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