Dal dopoguerra ad oggi, in Italia, si è andata formando una nozione e tipologia di cimitero che definiremmo, senza tema di smentita, come “scatolare” e “ad accumulo”.
È la traduzione architettonica dell’accesso di nuovi ceti sociali al bisogno di individuazione ed esternazione del lutto, attraverso il luogo di sepoltura in tumulo.
La rigidità della maglia normativa (la Legge italiana ammette semplicemente la tumulazione, ma non la eleva a metodologia di massa) e la povertà di soluzioni costruttive hanno determinato, ai fini della visione dello spazio commemorativo, una riproduzione nel cimitero (per certi versi anche accentuata) del degrado delle periferie urbane, negli anni del boom economico, dopo il II conflitto mondiale.
È il sepolcreto figlio del benessere e del consumismo, dove alla crescita estensiva delle villette a schiera nelle città dei vivi, si contrappone il fiorire delle edicole funerarie realizzate in serie, senza particolare buon gusto.
Alle statue e sculture di pregio si sostituisce l’anonima rappresentazione in plastica, in bronzo, con una notevole perdita dell’aura dell’oggetto artistico, svilito da una riproduzione meccanica, quasi ossessiva degli stessi moduli.
Al dilagare incontrollato dei quartieri dormitorio si giustappone parallelamente, nei cimiteri, lo spandersi caotico di costruzione dei loculi in batteria.
Il cimitero, un tempo microcosmo di equilibrio fra il costruito (le tombe) e le aree aperte (i campi di inumazione), si riempie di scatole (i loculi) prima di mattoni e malta, poi di cemento armato.
Ma, ahimè, nel passaggio silenzioso ed epocale insieme, non ci rendiamo conto che i sistemi di sepoltura propri della tumulazione in tomba, nati per perpetuare il ricordo dei morti delle classi più agiate, vengono applicati tout court al cimitero scatolare, creando un immobilizzo notevole del patrimonio edilizio cimiteriale.
In buona sostanza il cittadino medio della seconda metà del ‘900 chiede un tipo di sepoltura diverso dal campo comune, per poter lasciare anch’esso una traccia di sé, così come avevano fatto le classi agiate, dell’alta borghesia che lo avevano preceduto, le quali per sottrarre il proprio sonno eterno ai capricci del tempo e del mercato (data la scarsa incidenza sul numero di feretri da seppellire) affidavano le proprie future spoglie mortali a tumuli in concessione spesso di durata illimitata, con gravi problemi e criticità gestionali lasciati in eredità al XXI secolo.
Non è un caso che, analizzando il ceto di provenienza delle salme inumate, si scopra che al Sud, ma anche nel resto del Paese, l’inumazione (vera tecnica “istituzionale” di sepoltura dei cadaveri, almeno secondo la Legge) venga considerata la sepoltura povera per eccellenza e come tale residuale (5-10% del totale).
Nelle aree metropolitane del Nord, se eccettuiamo l’incedere tumultuoso del fenomeno cremazionista, tipico degli ultimi 20 anni, in quelle città dove al campo comune si sostituisce il cimitero a verde, la percentuale della sepoltura in terra rispetto al totale non cala, anzi sembra aumentare, dapprima come scelta di semplicità (per credenze politiche, religiose o filosofiche), poi come vero e proprio fatto di moda (si pensi al modello di cimitero verde americano diffuso col mezzo televisivo nelle nostre case).
Adesso l’inumazione, divenuta pratica funebre per noi Italiani, quasi residuale, si sta, invece, rivitalizzando soprattutto in funzione delle comunità straniere di immigrati, le quali prediligono, per ragioni di dogma, l’interro delle salme nella nuda terra.
I Comuni hanno assecondato la crescita esponenziale del cimitero scatolare in quanto si sarebbe erroneamente così creduto di poter sfruttare meglio il posto disponibile, sempre più esiguo, e non certo dilatabile all’infinito, con lo sviluppo in verticale, e di trarne anche un guadagno economico, attraverso i molteplici canoni delle concessioni da riscuotere.
Si pensi che, per tombe familiari, si ha in genere un rapporto di 3-4 posti/tumulo per ogni buca che si andrebbe a riscavare nella stessa superficie.
Se le costruzioni sono altamente intensive, come accade con i loculi a più piani, il rapporto cresce fino a 8-10 posti/tumulo per ogni fossa e quindi si avrebbe un aumento del numero di posti realizzati per mq., peccato che lo siano come tumulazione stagna.
Soluzione che si è rivelata un cruciale errore di sistema, essenzialmente per l’aver mantenuto elevate durate di concessione dei loculi, dapprima con un basso turn over (da perpetua a 99 anni e solo più di recente a 30-40 anni).
Mentre nel campo comune ogni buca ha un ciclo di rotazione di 10 anni, nel tumulo questo è mediamente di 35-40 anni, inconsunto premettendo, vanificando così buona parte del guadagno di cubatura e volume degli edifici adibiti ad uso sepolcrale, cui si faceva cenno poc’anzi.
E conteggiando che ormai il 90% delle estumulazioni stagne presenta inconsunti, la “macchina cimiteriale” frutto dell’applicazione del DPR 285/1990 è una scelta profondamente criticabile per una corretta gestione dei cimiteri italiani.