Quesito: Codesto Comune ha continuato, nel tempo, a rilasciare concessioni cimiteriali di durata eccedente a quella fissata nel regolamento municipale di polizia mortuaria attualmente vigente. Come comportarsi, una volta rilevata la difformità temporale?
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Occorre necessariamente premettere che la natura giuridica dell’atto-contratto cimiteriale è quella della “concessione da parte dell’autorità amministrativa di un’area di terreno o di una porzione di edificio in un cimitero pubblico di carattere demaniale” (Corte di cassazione civile, Sez. unite, 27 luglio 1988 n. 4760). L’art. 92 del D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 prevede che le concessioni di sepolcri privati nei cimiteri (quale è quella concernente una tumulazione individuale, cioè il loculo) devono essere formalizzate mediante specifico atto di concessione che costituisce la condizione essenziale per la sussistenza di una concessione d’uso di sepolcri privati.
Si tratta, pertanto, di un atto unilaterale con il quale il Comune attribuisce a un terzo il diritto d’uso di un bene demaniale per una determinata durata, sul quale si innescano condizioni di tipo contrattuale, di natura quindi bilaterale e pattizia (ad esempio, relativamente alle condizioni d’uso ed alle eventuali inadempienze, le quali implicherebbero la decadenza sanzionatoria).
Decorrenza e durata degli atti di concessioni cimiteriali non rientrano nella volontà pattizia delle parti, ma devono rispettare le norme regolamentari comunali in vigore al momento della stipula, ivi compresa la durata, pro tempore fissata dal dettato regolamentare vigente in sede locale (quaranta anni nel caso del quesito).
Appare di conseguenza evidente ed incontrovertibile che, nel caso sottopostoci, per gli atti concessori stipulati dopo il 25 maggio 1976, la durata non avrebbe potuto e non può che essere quarantennale, rilevando a tal proposito le disposizioni regolamentari pro tempore vigenti.
Ne discende che nei casi descritti dal quesito, l’indicazione della durata in anni 75, in luogo di quella di 40 anni, costituisce un mero errore materiale (rectius: una irregolarità involontaria) da correggere con le modalità previste dall’ordinamento, senza alcun pregiudizio per gli interventi di estumulazione già programmati, fatte salve le comunicazioni e gli accordi con gli eredi interessati.
Non è superfluo rammentare, a proposito della rettifica dell’atto amministrativo, che l’errore materiale nella redazione di un provvedimento amministrativo si concretizza quando il pensiero del decisore sia stato tradito ed alterato al momento della sua traduzione in forma scritta, a causa di un fattore deviante che abbia operato esclusivamente nella fase della sua esternazione. La rettifica, concernendo un errore materiale: • non richiede una motivazione rigorosa (come invece risulta necessario nel caso dell’annullamento d’ufficio, con conseguente sottoposizione alle condizioni prescritte dall’art. 21-nonies, comma 1, della legge generale sul procedimento amministrativo – Legge n.241/1990 e ss.mm.ii.). • non richiede neppure di valutare comparativamente l’interesse pubblico e l’interesse privato coinvolti, essendo finalizzata a rendere il contenuto del provvedimento conforme alla reale volontà di chi lo ha adottato. Per un migliore approfondimento del lettore, si consiglia la lettura della recente massima del Supremo Giudice Amministrativo (CONSIGLIO DI STATO, SEZ. VI – SENTENZA 5 marzo 2014, n.103).
Nel caso di specie è ragionevole ritenere che non si debba procedere ad annullamento per due importanti ragioni: per il principio di conservazione degli atti amministrativi ed anche per evitare un inutile dispendio di spese di contratto che in questo caso andrebbero a gravare sull’ente locale/concedente. In pratica si dovrà procedere con apposite determinazioni dirigenziali (anche una determina unica, che contenga però l’elencazione di tutti gli atti concessori censiti e soggetti a rettifica). Copia del provvedimento amministrativo dirigenziale andrà notificato a ciascuno degli interessati eredi per il prosieguo delle operazioni materiali ed amministrative concernenti l’estumulazione del loro parente.
La controversia riguardante l’esercizio del potere di fissare le tariffe delle concessioni delle aree cimiteriali rientra, ai sensi dell’art. 133, comma 1, lettera b), del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010), nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poiché interessa un profilo che incide sulla disciplina regolamentare della concessione; ciò, allora, esclude la cognizione in favore del giudice ordinario, che la norma citata prevede quando la controversia riguardi questioni meramente patrimoniali “concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi” .
X Enrico,
Stiamo ragionando di una concessione molto risalente nel tempo, sorta sotto l’imperio del R.D. n. 1880/1942.
Di norma, ed in linea di massima, una concessione cimiteriale sussiste solamente quando e se, agli atti del Comune, vi sia esemplare autentico del “regolare atto di concessione”, ex Art. 98 comma 1 D.P.R. n. 285/1990, senza il quale si deve parlare d’inesistenza della concessione stessa, da cui deriverebbe un uso “senza titolo” dell’area o dell’edificio tombale , e quindi il sepolcro, in buona sostanza, sarebbe abusivo (in senso tecnico!)
Quando manchi un titolo formale, secondo i principi generali dell’ordinamento ed ai sensi dell’Art. 2697 Cod. Civile dovrebbe esser necessario un accertamento giudiziale ex Art. 2907 Cod. Civile sulla fondatezza del diritto (o presunto tale) rivendicato cui provvede la Magistratura Ordinaria in sede civile, tenderei ad escludere (ma felicissimo di esser smentito!) la competenza funzionale del giudice di pace, perchè lo jus sepulchri ha natura di diritto reale (sui generis), patrimoniale e personale e non rientra pertanto (anche le eccede) tra le materie assegnate ex Art. 7 Cod. Proc. Civile al Giudice di Pace.
Data l’epoca piuttosto risalente la stipula dell’atto di concessione vero e proprio dovrebbe essere stata preceduta da una deliberazione del consiglio comunale di assegnazione dell’area, nonché dall’autorizzazione prefettizia per procedere alla concessione con il conseguente perfezionarsi dell’atto di concessione, il quale, oltretutto, una volta formato, sarebbe stato soggetto al visto di esecutività da parte della G.P.A. (organo oppresso con l’istituzione dei T.A.R. avvenuta con la Legge n. 1034/1971), tutto questo in regime di Regio Decreto n.1880/1942, cioè del regolamento statale di polizia mortuaria vigente in quel periodo storico.
Infine, sia il progetto di costruzione del corpo di loculi sull’area data in concessione, sia quello per eventuali successivi interventi di ristrutturazione o ri-adattamento del manufatto dovrebbero essere stati approvati dal comune e, le opere, una volta eseguite , avrebbero, comunque, dovuto esser oggetto sia verifica sulla rispondenza di quanto realizzato con il progetto precedentemente varato, sia di collaudo, quanto meno statico, a rilevanza igienico-sanitaria.
Per altro, non mancano, anzi sono abbastanza diffusi, frangenti e realtà territoriali in cui la tenuta degli archivi presenti condizioni di pesante “sofferenza” ed inadeguatezza, stato di fatto che, senza entrare nel merito delle possibili cause, spesso annose e non solo dovute alla momentanea incuria, costituisce un fattore di criticità, perchè la disponibilità dell’atto di concessione e, quindi, la conoscenza del concessionario, costituisce elemento essenziale per acclarare, in occasione di ciascuna singola richiesta di tumulazione, se il defunto di cui sia richiesto l’accoglimento nel sepolcro abbia titolo ad esservi ammesso ex Art. 102 DPR 10 settembre 1990 n. 285 (aspetto che, altrettanto, spesso è poco praticato, generando situazioni, talora, di indebito uso del sepolcro).
All’assenza di atti d’archivio (o di registrazioni tratte dagli atti d’archivio), potrebbe essere sopperirsi, oltre che, ovviamente, con ricerche approfondite nell’archivio del comune interessato (spesso laboriose, specie se l’archivio non sia sempre stato tenuto in modo adeguato), anche con accessi all’Archivio di Stato, in cui potrebbero (es.) essere state riversate, decorsi oltre 40 anni, le copie dell’atto di concessione a suo tempo oggetto di visto da parte della G.P.A. In alcuni casi, potrebbe darsi il suggerimento di avviare le ricerche iniziando dai registri delle deliberazioni del consiglio comunale (che erano tenute in termini tanto più ordinati, quanto più indietro si vada nel tempo), ciò consentirebbe di individuare, oltre al il momento temporale cui restringere le ricerche, anche il concessionario iniziale (c.d. fondatore del sepolcro), operazione da “topi di biblioteca” che favorirebbe le ricerche per le fasi successive, cioè per provare l’eventuale subentro, ossia l’ingresso dei discendenti dell’originario fondatore nella piena titolarità del sepolcro. Ovviamente l’istituto della voltura nelle concessioni cimiteriali opera solo mortis causa, essendo vietato su quest’ultime ogni atto di disposizione per acta inter vivos, stante la sancita demanialità dei beni cimiteriali.
Una volta individuato il fondatore del sepolcro, si definisce “di default”, cioè automaticamente anche l’ambito della famiglia avente diritto alla sepoltura, mentre per il tempo successivo al decesso del concessionario/fondatore del sepolcro dovrebbero esservi stati atti di “subentro”, regolati per altro dal regolamento comunale di polizia mortuaria, considerando come qualora questo istituto non sia stato considerato, né tanto meno applicato deve concludersi che concessionario sia rimasto quello originario.
Già parlare di “eredi” (salvo la destinazione di tipo ereditario impressa al sepolcro nell’atto costitutivo) pare fuori luogo, poichè la qualifica di erede inerisce ad una situazione patrimoniale (= il trapasso delle sostanze del de cuius) mentre secondo l’orientamento costante della Suprema Corte di Cassazione la fondazione di una tomba ha da intendersi quale famigliare o gentilizia, sibi familiaeque suae.
L’uso promiscuo dei termini erede/discendente non facilita la decrittazione dell’atto concessorio o della convenzione che sovente l’accompagna, in cui le rispettive parti contraenti il rapporto concessorio fissano la lex sepulchri (rosa di persone destinatarie del diritto di sepolcro, oggi “riserva” ex art. 93 comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285) e le rispettive obbligazioni sinallagmatiche (immagino gli oneri manutentivi o altre condizioni per l’esercizio del diritto d’uso sul sepolcro).
Quanto poi al subentro abbiamo due distinte tipologie (rectius: filosofie di sistema), la prima vuole che il subentrante si avvicendi nella piena titolarità del sacello, concentrando nelle sue mani tutto lo jus sepulchri, come se fosse il concessionario primitivo, la seconda, invece, prevede il subentro nella nuda proprietà del manufatto tombale, scindendola così dall’effettivo jus sepeliri o jus inferendi mortuum in sepulchrum (diritto ad esser sepolti o a dar sepoltura in quella determinata edicola sepolcrale).
La mera intestazione della concessione può, pertanto, esser divaricata dal diritto d’uso.
Tutto il problema, di conseguenza, ruota attorno all’istituto del subentro.
Buonasera, espongo il mio caso. Nel 1957 viene a mancare mio nonno e non avevamo una cappella gentilizia. Nello stesso anno uno dei figli ( ne erano 11 ) presenta domanda al comune impostandola così: ” All’amministrazione comunale di … Il sottoscritto Giuseppe, nell’interesse di tutti gli eredi del defunto Carmine chiede la concessione di un’area cimiteriale ecc..” La domanda non è stata seguita da una delibera fino al 1965 quando la giunta del tempo provvede a effettuare la delibera impostandola così: ” Vista la domanda prodotta da Giuseppe.. vista la bolletta di pagamento del 01/58 con la quale il richiedente ha pagato il corrispettivo di £ 50.000 ..diritto di attacco al muro; visto il progetto e riscontratolo conforme; visto il regolamento di polizia mortuaria, DELIBERA concedere al sig. Giuseppe un’area cimiteriale… sotto l’osservanza del R.D e di tutte le norme in vigore, NONCHE’ DELL’ATTO FORMALE DI CONCESSIONE. A distanza di 35 anni , i figli di Giuseppe rivendicano la proprietà della cappella in quanto la delibera è stata fatta a nome del padre. Al tempo della domanda, 1957 non era prevista la presentazione di alcun progetto e a seguito di mia richiesta il comune lo conferma, ma l’ATTO FORMALE DI CONCESSIONE è un documento a parte o la delibera vale come atto stesso? Mi è stato detto che mancando sia il progetto che L’atto formale di concessione si può fare riferimento esclusivamente alla domanda iniziale e richiedere al Comune di effettuare una modifica alla delibera del 1965 impostandola come concessione agli eredi di Carmine.
Ringraziando anticipatamente porgo distinti saluti