Diritto di sepolcro: dall’antica Roma ciceroniana all’attuale D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285

In una notte buia e tempestosa, vagando sul web, alla disperata ricerca di qualche nozione dell’antico diritto di Roma, riguardo al regime giuridico cui sarebbero stati assoggettati i beni funerari mi sono casualmente (…o quasi!) imbattuto in un autorevole chiosa ad un parere del Consiglio di Stato, da parte del Dr. Remo Giovannelli.
In questa disamina l’autore analizza alcuni istituti che derivano direttamente dal diritto romano, in cui vigeva pur sempre – non dimentichiamo mai – la distinzione tra le cose di diritto divino (res divini iuris), e le cose di diritto umano (res humani iuris) [1].
Inoltre, all’interno dei beni di diritto divino, vi era un’ulteriore tripartizione tra res religiosae, res sacrae e res sanctae [2].
In primis, tra le res sacrae si enumeravano i templi ed i beni mobili finalizzati all’officio del culto, i quali avrebbero anche potuto sussistere in “regime di diritto privato” (res privatae) ma, tramite due appositi atti, la dedicatio e la consecratio, erano, invece, destinati alla pratica religiosa [3].
Le res sanctae invece, “non sono, in senso stretto, res divini iuris, ma […] vi rientrano in un certo senso […]: esse sono le mura e le porte delle città poste sotto la diretta protezione degli dei.
Si tratta, in definitiva, di res publicae per cui è prevista una specifica protezione di carattere sacrale” [4].
Dopo questa breve parentesi introduttiva, ed in codesto momento dirimente, è necessario e doveroso sviluppare una breve analisi dell’idea di res religiosa predominante in antichità, ovvero “il luogo avviato a uso sepolcrale, in quanto vi si fosse seppellito un cadavere – anche di uno schiavo – da parte di chi avesse avuto il diritto di esercitare questo atto di disposizione per il post mortem: Lo Jus mortuum inferendi sarebbe, allora, sorto in capo, in linea di massima, al proprietario del fondo o del titolare dello jus sepulchri[5], ovvero, “il diritto di procedere all’inumazione in un sepolcreto già esistente” [6].
Inoltre, in dottrina, è stato rilevato che “in epoca classica si distinguevano due categorie di sepolcri, i c.d. sepulchra familiaria e gli hereditaria[7].
Infatti, a seconda della volontà del fondatore del sepolcro, lo stesso si sarebbe potuto destinare “a sé ed ai propri discendenti in quanto tali, indipendentemente dalla posizione assunta rispetto alla successione ereditaria” [8], o agli eredi “anche se estranei” [9].
Nella monumentale opera giuridica di Cicerone emerge un concetto, in un certo senso, conforme al diritto italiano vigente (nello jus positum: art. 824 comma 2 Cod. Civile, e art. 92 comma 4 D.P.R. n. 285/1990.
L’espressione del grande oratore ed avvocato dell’antica Roma Repubblicana, può essere accostata a Hoc monumentum heredem non sequitur espresso anche con l’acronimo H.M.H.N.S. come indicazione che il monumento funebre sarebbe diventato un bene indisponibile (extra commercium!) anche per l’erede, il quale, pertanto, non avrebbe potuto, certo, deciderne a suo piacimento.
In tal modo il diritto degli dèi Mani avrebbe trovato il dovuto rispetto anche dalle generazioni future.


[1] D. Dalla – R. Lambertini, Istituzioni di diritto romano, seconda edizione, G. Giappichelli editore, 2001, Torino, p. 220.
[2] D. Dalla – R. Lambertini, Istituzioni cit., p. 220. M. Talamanca, Elementi di diritto privato romano, Giuffrè editore, 2001, Milano, p. 202.
[3] Cfr. con M. Talamanca, Elementi cit., p. 202. Invero, dedicatio e consecratio sono atti distinti che hanno dei presupposti differenti.
Cfr. con F. Sini, Sua cuique civitati religio, Religione e diritto pubblico in Roma antica, G. Giappichelli editore, 2001, Torino, p. 114: “Di solito si ponevano in essere contestualmente una dedicatio e una consecratio ed operavano sia il magistrato sia il sacerdote. Tuttavia, i due atti si presentano ben distinti dal punto di vista giuridico e religioso: la dedicatio, per cui non rilevava alcuna qualifica “religiosa” ma solo la designazione da parte del populus, poteva dirsi in senso proprio un atto di ius publicum (Cicerone definisce la materia: ius publicum dedicandi); mentre la consecratio richiedeva la specifica competenza pontificale”.
[4] M. Talamanca, Elementi cit., p. 202.
[5] M. Talamanca, Elementi cit., p. 202.
[6] M. Talamanca, Elementi cit., p. 202.
[7] M. Talamanca, Elementi cit., p. 361.
[8] M. Talamanca, Elementi cit., p. 361.
[9] M. Talamanca, Elementi cit., p. 361.

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Carlo Ballotta

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3 thoughts on “Diritto di sepolcro: dall’antica Roma ciceroniana all’attuale D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285

  1. X Santo,

    Suo cugino – in quanto figlio di Suo zio deceduto – ha pieno diritto a disporre della salma del padre, chiedendone la traslazione, nella scala gerarchica tra gli aventi diritto, infatti, prevale quello/a in più stretto legame, o di sangue o attraverso vincolo di matrimonio, con il de cuius.
    Dalle sepolture perpetue, teoricamente, non sarebbero ammesse le estumulazioni, quando queste avvengano in regime di straordinarietà (appunto: traslazione ad altro luogo di sepoltura) la conseguenza dovrebbe esser l’estinzione sia per il defunto trasferito del diritto di sepolcro, sia per quella frazione (il singolo loculo prima occupato dal feretro di Suo zio) della complessiva concessione a Lei intestata, per esaurimento dei fini nel rapporto concessorio, o meglio di quella quota di rapporto concessorio strumentale alla sepoltura anche di Suo zio.

    Nessun problema per Lei, comunque, perchè per l’accrescimento civilistico (istituto da approfondire!) questa “quota morta” verrà assorbita dalla restante concessione in Suo favore. Agli effetti concreti Lei rientrerà nel potenziale uso anche di quella tomba, prima dedicata alla sepoltura dello zio. Lei, quindi, concentrerà maggiormente su di Sè lo jus sepulchri.

  2. Nella mia cappella avevo la salma di mio Zio, mio cugino la prelevata senza avvisarmi, stupito ,chiedo doveva chiedere il mio parere , la salma era di suo padre e la cappella e perpetua,sono indignato posso chiedere danni molari.
    Grazie

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