Sembra utile, con una tecnica d’approccio ed analisi fortemente fenomenologica, e, pure di ricostruzione storica dei vari istituti, sui quali verterà questo stringato studio, raffrontare anche la disciplina del diritto di sepolcro con le coordinate offerte dagli assi cartesiani del nostro sistema giuridico: pluralistico, liberale e democratico, e, soprattutto, con i valori costituzionali, sintetizzati dalle varie culture politiche che convergettero nell’elaborazione della Carta, all’interno della quale ogni disposizione vigente, primaria o secondaria (e quindi anche le norme consuetudinarie) deve essere correttamente letta ed inserita.
Tale confronto speculare ed “a rime parallele” interviene soprattutto rispetto a due vaste materie che posseggono piena e sicura cittadinanza nel nostro ordinamento: quella dell’autonomia negoziale (sia in àmbito contrattuale e, più in generale degli atti inter vivos, sia nella sfera successoria) e quella della protezione della famiglia.
Con riguardo a quest’ultima, si deve prestare attenzione innanzitutto al favor familiae, di cui si rinviene traccia e menzione, oltre che nel corpus del Cod. Civile (ad esempio, agli artt. 120, comma 2, e 122, comma 4, circa il termine annuale — e non quinquennale, come per gli altri negozi — per promuovere l’azione di annullamento del matrimonio per vizi della volontà), anche nella Costituzione, tramite gli artt. 29, 30 e 31.
Nella fattispecie giuridica in esame vi è un recondito collegamento genetico inscindibile fra l’esistenza del gruppo — che origina dalla società naturale fondata sul matrimonio — e lo spettro delle sue funzioni, l’esser parte, pleno jure, di una famiglia e l’interesse individuale dei singoli soggetti suoi costituenti. Lo status familiae, presente o preterito, derivante da coniugio o parentela (Artt. da 74 a 77 Cod. Civile) ovvero, almeno secondo alcuni giuristi, anche affinità (ma è opinabile!), rappresenta il titolo “cardine” e portante per l’effettivo esercizio dello jus sepulchri quando la tomba sorga, ab origine, come privata e gentilizia (ex multis, cfr. art. 340 comma 2 R.D. n. 1265/1934).
Rispetto alle usuali regole uniformate al dogma del sangue e del nome, mutuato dal diritto romano, si è talvolta riconosciuto giudizialmente (con tutta l’alea che un giudizio, in sede civile, comunque implica e poi si rammenti l’art. 2909 Cod. Civile sull’improcedibilità dello “stare decisis”!) un campo maggiormente ampio all’insieme “famiglia”, quale riferimento per identificare i titolari dello jus sepulchri, qualora il fondatore non abbia formulato volere contrario o diverso.
Il diritto alla tumulazione nella tomba della famiglia del coniuge, pertanto, non decadrebbe neppure in forza del passaggio a nuove nozze dopo la vedovanza, poiché l’ulteriore matrimonio non estinguerebbe il nesso di affinità con la famiglia stessa di provenienza del defunto. (Cons. St., sez. V, decisione 13 maggio 1991, n. 806, in Giust. civ., 1992, I, 1113.).
I rilievi dei Tribunali Italiani, spesso aditi dal comune cittadino per dilaceranti liti sullo jus sepulchri, normalmente affermano, anche nel rispetto del significato semantico generalmente impiegato, e da tutti accettato, che con il termine di “famiglia” deve intendersi un organismo, (ossia un nucleo sociale “vivo”, dotato di una propria fisionomia giuridica e personalità) composto da persone del medesimo sangue o, tra loro, in relazione di matrimonio od affinità, ancorché non aventi lo stesso cognome.
In tal senso, è notorio che il diritto ad essere accolti nel sepolcro familiare ricade anche sulle figlie femmine coniugate, in quanto aventi lo stesso sangue del fondatore.
Non è, infatti, condivisibile la tesi, giacché appartenente ad una concezione degli effetti dell’unione coniugale oramai superata, secondo la quale potrebbero essere sepolti nella tomba di famiglia esclusivamente i discendenti maschi o femmine se nubili, reputando che con il matrimonio le discendenti femmine lascino la famiglia di origine per entrare in quella maritale.
Una difforme esegesi (molto retrograda!) finirebbe per avallare una visione della società tipica del passato, e di una struttura sociale basata sulla preminenza maschile, che contrasta apertamente con l’attuale comune sentire, in cui la singola persona umana è portatrice di propri diritti e ideali individuali.
In merito, poi, ai coniugi dei discendenti del fondatore del sepolcro, seppure essi portino un diverso cognome, rispetto a quello della famiglia intestataria del sacello, il riconoscimento di un loro diritto alla sepoltura non pare in contrasto con la volontà di costui, poiché non si tratta di forzare abusivamente la compiuta cerchia famigliare cui la norma fa riferimento, bensì di comprendere, in tale gruppo, tutte le persone aggregate tra loro da linee di parentela (per agnazione o cognazione, qui non rileva, almeno dall’entrata in vigore dell’art. 3 Cost. ) od affinità od anche solamente di natura affettiva (come accade per le benemerenze di cui all’art. 93 comma 2 D.P.R. 285/90).
Più complessa ed intricata, tuttavia, secondo G. Musolino, appare la diatriba e la disputa, magari pure tutta accademica, per quanto attiene alle figlie femmine e ai loro discendenti, come anche relativamente alle discendenti femmine dei figli o dei loro discendenti maschi.
Difatti, ad avviso di tale autore, supportato, nell’esplicare tale argomentazione, pure da disparati pronunciamenti della Cassazione, solitamente lo jus sepulchri concerne le figlie del fondatore (e dei suoi discendenti maschi) quando esse rimangano nubili, mentre non riguarderebbe più i discendenti delle figlie e alle altre discendenti femmine, come pure ai mariti delle figlie e delle altre discendenti femmine.
Ciò si spiegherebbe — non con insussistenti intenti penalizzanti, dai risvolti pesantemente maschilistici, ma con la considerazione, molto più limpida e neutra, secondo cui, attraverso il matrimonio, le discendenti del fondatore entrerebbero, di diritto, a far parte di una nuova famiglia, che, fra l’altro, potrebbe avere un proprio sepolcro, nel quale esse avrebbero diritto di venire tumulate.
Ad ogni modo, non si eccettua che anche le figlie coniugate del fondatore (con cui condividono il sangue, ma non più propriamente il nome: la figlia, sposandosi, aggiunge al proprio cognome quello del marito — art. 143 bis Cod. Civile) possano rientrare nell’alveo familiare ai fini del diritto in esame.
Si ritiene che la figlia di famiglia, la quale, già titolare dei diritti relativamente al proprio sepolcro famigliare, come moglie, ne ottenga degli altri, convolando a nozze, sul sepolcro familiare del marito, conservando ambedue i diritti (salvo contraria volontà di uno o entrambi i fondatori) e possa scegliere fra di essi (in articulo mortis?).
Nel sepolcro familiare, così, l’appartenenza alla famiglia come intesa dal fondatore (qui importa unicamente lo status familiae, ossia il determinato rapporto di parentela previsto nell’atto di fondazione) è, dunque, presupposto indispensabile per l’acquisizione, a titolo originario, del diritto alla sepoltura.
Entro tali limiti – i quali consistono nelle colonne d’Ercole che demarcano lo jus sepulchri, nella sua reale portata – la volontà del fondatore può, senza restrizione o pregiudizio alcuno, in ossequio alla propria libertà (ma mai al capriccio sfrenato!) estendere o contenere il novero dei beneficiari dello jus sepulchri, allo scopo particolare della titolarità del prefato diritto; quando, viene sottoscritto dalle parti l’atto di concessione e solo in questo preciso momento (per una modifica, in itinere, a tale contratto occorrerebbe una consensuale novazione del rapporto concessorio, ex art. 1230 Cod. Civile, non essendo possibile alcun atto unilaterale da parte del Comune, quale ente concedente, o del privato concessionario).
Nel caso in cui non sia indicata una dissimile, specifica volontà oppure essa non sia chiara e sussistano dubbi ermeneutici sulla destinazione “dedicata” (quella ad uso sepolcrale è fissata ope legis, anche se in questa sede pare persino lapalissiana una precisazione di tale tenore… ma repetita juvant!) da imprimere all’edificio funerario, il sepolcro si deve presupporre riservato “sibi familiaeque suae”.
La consuetudine che regolamenta il diritto al sepolcro familiare, in relazione alla sostanza stessa dell’oggetto del diritto, è incardinata sui princìpi informatori della convivenza sociale e familiare alla luce dei precetti morali e religiosi, ispirati alla pietà per i defunti e al rispetto delle loro volere.
Tale presunzione, stabilita dal diritto consuetudinario vigente, e da giurisprudenza costante a proposito di controversie e vertenze, nell’oscura galassia dei diritti del post mortem, riproduce, anche nel “mondo” cimiteriale, un’espressione del favor familiae, e rinviene la propria legittimazione nei logici precordi generali (figure meta-giuridiche?) che permeano di sé l’ordinamento italiano, nella sua poliedrica, eclettica ed – a volte – tentacolare completezza.
Con questa scelta si conferisce, così, preminenza e tutela giuridica all’elemento etico-sociale, il quale vuole, necessariamente, la famiglia riunita, dopo la morte dei suoi membri, rispetto a quegli interessi anche, e soprattutto, patrimoniali, che stanno, invece, alla base della successione ereditaria.
La ratio profonda di tale norma, implicita e quindi “costituente” (comune anche alle disposizioni pubblicistiche, più tecniche, contenute nel D.P.R. 285/90, e orientate ad esigenze di tipo squisitamente sanitario ed igienico) va ravvisata nell’alto obiettivo di ricomporre in uno stesso luogo, possibilmente consacrato e, perciò ammantato di malinconica sacertà, le spoglie mortali di quanti siano legati al fondatore per vincolum sanguinis, come estrinsecazione del bisogno identitario di perpetuare e raffigurare (presso i discendenti e verso la futura collettività tutta) l’unità, persistente anche dopo la morte, fra i componenti della società domestica e le virtù fondanti di essa.
Il sepolcro familiare, così tipizzato, seppur da norma non perfettamente scritta, forma la fattispecie ordinaria, paradigmatica, rispetto alla quale, per converso, il sepolcro ereditario dà luogo ad un’eccezione “calcolata”, a cui il fondatore ricorre, di solito, quando sia privo di discendenti e, non certo, per disdegnoso… gusto di dantesca memoria.
Lo jus sepulchri si rende, così, in quel diritto, di natura strettamente personale, o sin anche personalissima (al pari del nome, dell’onore…), imprescrittibile ed assoluto sì, ma contemperato dalle norme amministrative, che gli individui, accomunati da nodi di sangue o di nome con il fondatore del sepolcro, vantano, nei confronti dell’autorità comunale, per essere sepolti o per deporre una salma nella tomba attribuita alla famiglia, dopo apposita istruttoria documentativa, giusta l’art. 102 D.P.R. 285/90, da applicarsi estensivamente a tutte le forme di sepoltura intra o extra moenia coemiterialia).
L’ente locale è, difatti, titolare ultimo della funzione cimiteriale e del cimitero stesso (Art. 824 comma 2 Cod. Civile, Artt. 337, 343 e 394 T.U.LL.SS, giusto per attenerci alle norme di rango primario).
Secondo ataviche e, quasi ancestrali, regole consuetudinarie (praeter legem?), il diritto alla sepoltura spetta al fondatore del sepolcro — inteso (con presunzione juris tantum) come il soggetto titolare della concessione amministrativa —, al suo coniuge ed a tutti i suoi discendenti, anche nondum nati, al momento della sua dipartita terrena, facenti parte della di lui famiglia.
Con tale asserzione, per consolidato e remoto costume, nonché pacifica convenzione, si comprendono allora, rispetto al fondatore, che concentra su di sé tutto lo jus sepulchri attivo e passivo, così da irradiarlo, poi, ai propri congiunti, i familiari caratterizzati da comunanza di sangue (jure sanguinis) e di nome (jure nominis).