In nuce, così da enucleare bene il problema: *come* e *se* normare l’istituto del rimborso, in caso di retrocessione di tomba perpetua.
In primis: il rimborso non è mai un obbligo, certo; tuttavia per render più appetibile eventuale rinuncia….
Quindi, nel regolamento municipale, meglio prevederlo espressamente o, per converso, escluderlo apoditticamente?
Come calcolarlo, poi? Ovviamente sugli anni di usus sepulchri non effettivamente goduti, ma in una concessione atemporale, l’elemento tempo non è proprio considerabile come parametro di riferimento.
Aderire acriticamente al principio nominalistico di matrice civilistica? Modulare la somma riconosciuta a titolo di rimborso su cifre più ragionate e mediate e, in qualche modo, politiche?
I due capisaldi di una buona azione di governo cimiteriale dovrebbero esser a mio avviso:
1) preservare da salassi ingiustificati il bilancio comunale;
2) cercare di liberarsi, con un’accorta strategia degli “incentivi”, da una fattispecie già in essere e potenzialmente molto critica per oggi e domani, come una concessione eterna, nella gestione cimiteriale.
Alla fine, quale potrebbe esser la quadratura del cerchio, poichè la politica non è proprio l’arte dell’esattezza, e l’equilibrio sociale, tutto da reinventarsi di volta in volta, nella storia – da sempre – prevale sulle ragioni di puro diritto, in sè astratte, pure e perfette.
Partiamo da un concetto, che, poi, contraddiremo.
Il principio nominalistico (art. 1277 C.C.) non è (= sarebbe) derogabile, Peccato che nella situazione di cui ragioniamo (concessione in perpetuo), l’ipotesi risulti non proponibile, in particolare perchè (nelle matematiche) l’infinito diviso per “n” dà sempre infinito (“infinito” alias regime di perpetuità).
Per altro, qui commettiamo volutamente un errore logico, siccome una concessione in perpetuo non è un infinito, ma consiste in una concessione a tempo non determinato. Intenzionalmente non diciamo “indeterminato”, ma solo “non [pre]-determinato”, perchè vi sono condizioni previste dalla norma (per quanto poco o raramente praticabili e verosimili) in cui si ha addirittura l’estinzione della concessione (es.: art. 92, comma 2°periodo D.P.R. n. 285/1990). Ne traiamo così la conseguenza che la concessione in perpetuo non è infinita, ma solo di durata temporalmente non pre-determinata. Ma questo aspetto, avendosi presente anche l’art. 98, 1° comma D.P.R. n. 285/1990, consente di teorizzare almeno la costruzione di alcune soluzioni, tramite precisi percorsi operativi.
Prima di addentrarci nei passaggi successivi, più “tecnici” consideriamo questo punto dirimente: è interesse del Comune (e, quindi, della comunità locale nel suo complesso e sviluppo) conseguire un qualche risultato che conduca a ridurre, sin anche a superare le concessioni in perpetuo, (anche solo per comprimerne progressivamente il numero).
Per questo, vanno valutate tutte le opzioni che incentivino le effettive possibilità “causative” affinchè vi siano rinunce volontarie a tali rapporti concessori così vincolanti.
Uno dei fattori di maggiore criticità della questione è rappresentato della quantificazione di un’astratta (quasi metafisica) durata residua (diciamo così…) di una concessione in perpetuo, che non è proprio stimabile dall’umano intelletto, non è infatti intelligibile.
Se avessimo una concessione a tempo determinato di lunga durata (es.: quando non era ancora fissato il limite dei 99 anni, si avrebbero potuto avere concessioni da 120, 150, anche 200 anni), il computo della durata residua sarebbe pure abbastanza agevole.
Il richiamo fatto all’art. 98 porta a tale esito: qualunque sia la durata dello jus sepulchri dal sorgere della concessione, nel nuovo cimitero vi è la costituzione di una concessione nuova nella durata non superiore a 99 anni; e ciò ci lascia liberi di interpretare come, in tali evenienze “estreme”, possa pure ipotizzarsi una durata residua, anche nel caso delle concessioni in perpetuo.
Ricordiamo come, nel passato, vi fossero anche stati suggerimenti (in “tracce” di schemi di Regolamento comunale di polizia mortuaria) dove, per le concessioni in perpetuo si sarebbe dato come implicito un parametro 198, cioè ipotizzando 2 volte l’attuale massimo dei 99 anni (rammentiamo, poi, che non si dovrebbe parlare di 99 anni, bensì di “non superiore a 99 anni”).
Poichè l’interesse generale è quello già indicato, una tale ipotesi può essere anche percorsa, eventualmente coordinandola con altra scelta (sempre in sede regolamentare e quindi massimamente politica), in cui, strumentalmente, si imposti un meccanismo ragionato che trascuri il principio nominalistico.
Bisognerebbe ammettere una formula in qualche modo collegata con la tariffazione attuale (per la parte di canone relativo al diritto d’uso, non per la parte del canone per il recupero delle spese gestionali cimiteriali ex D.M. 1 luglio 2002), ma, in tale frangente (sia consentita una piccola suggestione dettata dall’esperienza), non si dovrebbe contare la durata residua (in quanto non determinata, né determinabile) sul valore 198 (2 x 99), quanto su di un valore del tutto minore, fino (situazione abbastanza estrema) a far iniziare il decorso del 198, dal momento genetico in cui la concessione, quando, cioè essa fu posta in essere attraverso regolare atto concessorio, debitamente rogato.
Magari si potrebbe contemplare, nello spettro della varie voci di calcolo anche un qualche criterio di “abbattimento” del valore, operazione che potrebbe farsi non utilizzando i valori attuali delle tariffe, ma questi ridotti di una certa aliquota (es.: 75%, 50%, 33% (= 1/3/), ecc.).
Un altro percorso, che può essere sfruttato da solo, ma anche in combinazione con altre strategie di buon governo cimiteriale, potrebbe essere l’incentivare le rinunce alle concessioni in perpetuo con una “moneta di scambio” consistente nel collegare la rinuncia ad una nuova assegnazione del medesimo manufatto sepolcrale a tempo determinato e usabile secondo le attuali norme regolamentari (è quello stratagemma che in alcune “tracce” di Regolamento comunale era denominato come “mutamento del rapporto concessorio”, con sua novazione).
Questa simultanea estinzione/ricostituzione offrirebbe anche una risposta rispetto al trattamento (= riduzione dei resti in cassetta ossario?) dei feretri già accolti nel sepolcro ed intangibili.
Ricordiamo come l’art. 86, comma 1° D.P.R.n. 285/1990 disponga che le estumulazioni si eseguano alla scadenza della concessione, ma, con un inciso, quando precisa che ciò non ha luogo per le concessioni date in perpetuo.
Con la rinuncia si creerebbero i presupposti di diritto per cui le estumulazioni-riduzioni possano essere veramente eseguite.
Questo “sblocco” giuridico (ricorrendo le condizioni dello stesso art. 86, comma 5 D.P.R. n. 285/1990) condurrebbe alla raccolta delle ossa in apposita cassetta, ricollocabile nella “nuova” concessione a tempo determinato, con ciò salvaguardando la natura familiare ed affettiva del sepolcro. Operazione quest’ultima che potrebbe essere a tariffa ridotta o, anche, a zero, se si voglia esasperare questa facilitazione (si tratta di modulare adeguatamente il bonus in modo da assicurare sempre al cittadino un’ opportunità“appetibile”), fermo restando solo le eventuali c.d. “spese contrattuali”, imposta di bollo se dovuta, registrazione…).
In alternativa, si potrebbe pensare anche a dare “in cambio” della rinuncia un’altra tipologia di sepolcro, es.: concessione (sempre con tariffazioni adeguate, al limite anche gratuite) di cellette ossario, a tempo determinato (meglio se di durate pari a quelle utilizzate per queste tipologie di concessioni), in modo da consentire a chi rinunci alla concessione fatta in perpetuo di conservare, per il tempo così determinato, un luogo per la memoria dei defunti.
Si tratta di ipotesi che presentano evidenti limiti di percorribilità, ad esempio nei casi in cui il Regolamento comunale di polizia mortuaria permetta (in contrasto con l’inciso ostativo dell’art. 86, comma 1° D.P.R. n. 285/1990) la possibilità di estumulazione anche per le concessioni date in perpetuo, una volta decorso un certo numero di anni.
Se l’indirizzo politico-regolamentare è questo verrebbe meno il beneficio di potere ri-usare del sepolcro anche oltre il raggiungimento di una situazione di completamento della capienza, la quale, raggiunta, rende non più utilizzabile il sepolcro per nuove tumulazioni, con lo jus sepulchri che spira ex se., ovviamente ex art. 93 comma 1 II periodo D.P.R. n. 285/1990.
Spesso pare che gli aspetti economici, in tutto questo astrologare non siano adeguatamente valutati.
C’è una unico dato certo: il massimo che un Comune può pagare per una retrocessione di un loculo è il costo di ricostruzione ex-novo, anche se la si giunge ad essa il giorno dopo della concessione di durata n anni.
Il minimo che può pagare è 0, il quale corrisponde alla restituzione fatta all’ultimo giorno di concessione.
Se la tariffa di concessione è di T=K+recuperospeseservizidati occorre capire quanto incida K su T.
Se come una volta era abbastanza ordinario le spese per servizi dati durante la concessione coincidente col costo di ricostruzione K allora valva T= 2xK e la tariffa che veniva resa al concessionario era pari a TR= T x (n-m)/2n dove m= numero di anni di cui si è fruita la concessione.
Ad es. retrocessione il giorno dopo la concessione di 40 anni: TR= T x (40-0)/2×40
Retrocessione fatta all’ultimo giorno: TR= T x (40-40)/2×40, cioé zero.
E per semplificare i conteggi degli uffici considerare gli anni con arrotondamento all’unità più vicina. La tariffa applicabile è quella T vigente per concessioni di quel tipo.
In ogni caso la rinuncia non è detto che sia accolta (se un comune ha già una marea di loculi cosa se ne fa di nuovi??)
Il caso della perpetuità è stato risolto appunto pagando il 50% della tariffa vigente.
Poi c’è la questione più complessa delle aree in concessione retrocesse con del costruito usabile sopra o del costruito non usabile (procedura di deroga ex art. 106 D.P.R. n. 285/1990???) o ancora libero.