Intorno alla seconda metà del XVIII secolo l’architettura cimiteriale conobbe uno sviluppo tumultuoso, dopo un torpore durato centinaia d’anni.
Per un tempo immemorabile, infatti, la gestione delle sepolture era stata esclusivo appannaggio dell’istituzione ecclesiastica.
La Chiesa aveva permesso ai sagrati delle pievi, ai portici delle basiliche ed alle navate delle cattedrali di trasformarsi in una disordinata successione di tombe addossate alle pareti o disseminate sotto le lastre del pavimento.
I cimiteri, dunque, si presentavano come uno spazio desolato ed anonimo, irto di croci ormai logore e cippi sgretolati, dove, dai tumuli e dalle orride fosse comuni, affioravano periodicamente, oltre ad esalazioni mortifere, ossame e resti inconsunti.
La filosofia settecentesca, in segno di profonda cesura ed opposizione verso dogmatismo religioso, elaborò una nuova estetica, profondamente riformatrice. Questo stile rivoluzionario, applicato all’architettura commemorativa, avrebbe dovuto plasmare la caotica distesa di avelli in una razionale proiezione delle città dei vivi.
Il moderno camposanto, secondo canoni mutuati dal gusto classico per la misura e le proporzioni, sarebbe sorto seguendo criteri fortemente innovativi: come l’accorta ripartizione delle aree ed il ritmico articolarsi dei moduli costruttivi.
Tali principi, in cui si ravvisa una profonda “fede” nell’armonia della dea ragione, avrebbero favorito lo sviluppo di un ordine spaziale, quindi di un orientamento di monumenti e percorsi, capace di divenire rappresentazione simbolica di quel divino equilibrio che regge il mondo.
L’unica soluzione, per strappare le tombe alla decadenza ed all’orrore del caos, sarebbe stata la definizione per i cimiteri di un inedito progetto, permeato di valori filosofici ancor prima che di considerazioni e studi architettonici.
L’arte neoclassica, più che interessata ad una particolare tecnica di realizzazione, era alla ricerca di un’inedita “ratio”, un nuovo codice per tradurre l’immateriale bellezza dell’universo in concrete opere umane.
Quest’originale configurazione di senso sarebbe stata in grado di trasformare, con un complesso giuoco di rimandi e simmetrie, i decadenti sepolcreti.
I siti maledetti, infestati, secondo l’esegesi medioevale, dal dolore e dalla paura per le strazianti vampe infernali, si sarebbero così mutati in un sublime modello di perfezione, dedicato al culto “laico” della memoria, dove le forme fossero pervase di solenne compostezza.
Per celebrare degnamente la continuità morale di affetti ed insegnamenti, anche dopo la morte, la cultura illuminista esasperò il concetto, caro all’arte ellenica, di Mimesi, ovvero di “copia del reale”, pensando le proprie necropoli come sostanziali imitazioni del mondo terreno e delle istituzioni civili.
Si trattava dunque di un unico linguaggio per due mondi diversi, ma complementari; due piani che, grazie ad una fitta rete di analogie e corrispondenze s’intersecavano con grande facilità, vale a dire la realtà fisica dei vivi e la dimensione del ricordo, legata all’eredità spirituale.
Nel pensiero settecentesco, infatti, sin dai tempi antichi, la disposizione di sarcofagi ed edicole era costruita su precisi schemi architettonici, che inevitabilmente riecheggiavano la filosofia urbanistica delle città.
L’ara o la cappella si specchiavano nell’archetipo del tempio o della chiesa, collocati nel centro urbano, mentre i vialetti ghiaiosi riproponevano il tema di strade e viali che isolano quartieri o delineano ampie sezioni e spaccati dell’agglomerato cittadino.
L’architettura era così investita di una funzione sacrale, suo compito non sarebbe stato il semplice dirimere questioni meramente tecniche e funzionali, bensì ricavare suggestioni ed individuare tracce di significato negli sterminati territori dell’inconscio e del simbolico.
Il cimitero sarebbe stato la massima espressione di quell’edilizia pubblica cui si domandava ormai di disegnare con caratteri forti e tangibili, proprio come il marmo o la pietra, la volontà collettiva e la coscienza civile della cittadinanza.
La celebrazione di questi valori, propri di una società matura, quindi, sarebbe stata sottratta definitivamente al dominio della sfera religiosa, o ai capricci della volubile aristocrazia.
Si proponeva dunque un’originale chiave di lettura, differente dalla rigida interpretazione teologica, per leggere compiutamente e comprendere le riflessioni neoclassiche sull’impianto di cui dotare i cimiteri contemporanei.
Il principio di fondo era rappresentato da una considerazione, già nota al mondo antico, secondo cui, in origine, la tipologia della casa e della tomba non si distinguevano.
La morte rappresentava una condizione provvisoria, uno stato intermedio tra due livelli i cui confini rimanevano pur sempre labili e confusi.
Attraverso le coordinate di un nesso ininterrotto tra epoche passate e presenti, le città dei morti non si sarebbero più rivelate come negazione assoluta della vita, nell’apoteosi della rovina.
Al contrario, avrebbero rappresentato sfuggenti zone dell’essere riservate all’attesa fiduciosa nella resurrezione o, semplicemente, alla malinconica eco della memoria e del ricordo che svanisce nel tempo.
Si affermò così, dopo le intemperanze artistiche e gli eccessi religiosi del periodo barocco, uno stile che prediligeva linee forti, ordinate e serene.
E’, in effetti, peculiarità dell’estetica neoclassica la ferma volontà di comunicare allo spettatore un sentore di olimpico distacco e fiero, nobile dominio delle passioni. Anche la stele marmorea o la levigata arca funebre, allora, divengono la testimonianza di una pedagogia sociale che promuove le virtù morali e lo slancio civile a massime espressioni dell’uomo.
In questo ambiente, che, per i vivi, è luogo di ricordo soave, l’aspetto regolare e la razionalità delle costruzioni costituiscono, di fatto, l’unica alternativa alla crescita brutta e turpe dei sobborghi e delle periferie.
L’architettura riaffermava in questo modo il proprio intento di ricercare ed indagare i precordi culturali della nostra civiltà occidentale, attingendo, con le proprie elaborazioni concettuali, ad un patrimonio di comuni ideali, ad un livello di oggettiva universalità in cui chiunque potesse riconoscersi.
La lente deformante della soggettività, che legittimava le pirotecniche ed ardite creazioni della stagione barocca, risultava ormai un’intollerabile ed oltraggioso arbitrio nei confronti dell’idea stessa di bellezza.
L’estro dell’artista, dunque, non si sarebbe più manifestato in una sinuosa e gaudente estetica, ma nel rigoroso rispetto della grazia naturale, massimo simbolo di quella celeste sapienza che, come rilevò in epoca lontana lo stesso Dante, “L’universo a Dio fa simigliante” (Paradiso, prima cantica).
L’area cimiteriale, nel pensiero settecentesco, ricopre una posizione di rilievo nella geografia urbana, perché si pone quale emblema della città stessa, come un sacro luogo di vestigia fondato su connotati egualitari e democratici.
Così concepito, il camposanto si trasforma in una minuziosa mappa, ricca di citazioni ed analogie intuitive, che descrive gli svariati percorsi legati all’esperienza terrena degli individui.
Una scelta che prediliga corpi di fabbrica netti e monumentali, capaci di innalzarsi semplici e maestosi, non necessariamente si traduce in uno sterile formalismo espressivo.
Il sepolcreto neoclassico è un complesso che si svolge con metodo entro volumi, superfici e profondità sapientemente alternati.
Spesso, come nel cimitero Di San Cataldo a Modena, le solide masse sono attraversate ed alleggerite da gallerie o umbratili camminamenti che paiono inabissarsi verso un ignoto regno sotterraneo, dalle evidenti suggestioni classiche.
Questi corridoi, raffigurazione fisica dello smarrimento dello spirito dinnanzi ad uno scenario imponente “ove per poco il cor non si spaura”, secondo il celebre verso leopardiano, sono attraversati da un’ oscura tensione romantica. Il sottile affanno, però, si disperde placidamente in un’immota ed elegante distesa di sacelli, nella quieta grandiosità dell’edificio neoclassico, sotto un terso cielo d’Arcadia.