Il concetto di uno spazio sacro, ossia di un luogo certo e delimitato dall’inviolabilità di un potere ultraterreno, è un concetto ancestrale dell’antropologia cristiana.
I massicci complessi plebani, ispirati all’austero stile romanico, racchiudevano, dunque, una zona immateriale ed infinita, ma al tempo stesso percepibile dall’occhio umano perché articolata con sapienti geometrie su diversi livelli (cripta, piano medio e presbiterio) e capace di proiettare l’uomo dell’evo feudale verso le ineffabili realtà sovrannaturali del paradiso.
Solo in quelle imponenti mura marmoree o di semplice pietra dirozzata, spesso riccamente istoriate, infatti, si compiva l’unico e perfetto sacrificio che riconciliava il mondo a Dio Padre.
Il tempio, oltre ad esser il principale luogo di preghiera, veniva vissuto come un vero portale d’accesso al cielo e tutti gli elementi architettonici, dunque, contribuivano a suscitare nei visitatori l’intensa emozione d’esser già partecipi del banchetto eucaristico nel Regno di Dio, dopo aver misteriosamente sciolto il vincolo terreno gravato dall’antica colpa che li separava dalla luce senza tramonto.
La ritmica e serrata partizione, logica, quasi ossessiva, dei moduli costruttivi, come l’alternarsi tra archi traversi, capitelli, pilastri a polistilio e colonne; il sistematico convergere di tutte le linee prospettiche verso un punto di fuga idealmente collocato presso l’Altar Maggiore, assieme alle altezze sempre più vertiginose raggiunte della navata centrale, creavano, nel fedele, immerso in una visionaria penombra, un profondo senso d’estasi e rapimento che gli avrebbero permesso di pregustare la gioia dei beni eterni.
Le chiese, poi, senza distinzione alcuna tra cattedrali o semplici oratori, presentavano sempre il gruppo absidale, ovvero quella zona semicircolare che, dietro al presbiterio, chiudeva le navate, orientato verso levante, ad Est, mentre la zona riservata alle sepolture era il lato nord, la parte più buia del sagrato ove l’edificio sorgeva.
Nella fiancata settentrionale si apriva, quasi sempre, una porticina, di ridotte dimensioni anche in altezza, non complanare al piano del pavimento, ma introdotta da un gradino di notevoli misure.
Questo varco serviva per trasferire i feretri verso la sepoltura, nella zona attigua alla chiesa dove era stata scavata la fossa comune.
Il becchino avrebbe provveduto a rimuovere dalla rozza cassa il cadavere che, avvolto solo nel lenzuolo, in cui era stato cucito con cura, sarebbe stato brutalmente gettato a marcire a fianco di altri corpi, coperto solo con una generosa quantità di calce, per allontanare predatori e malattie provocate dai miasmi fetidi.
La salma sarebbe giaciuta lì, esposta alle intemperie, all’ingiuria dei peccatori o al caldo torrido, sino a quando gli affossatori non avessero chiuso con la terra benedetta la tomba ormai debordante d’ ignote membra umane, già guaste ed irriconoscibili.
Nella profondità angosciante di quello scavo umido ed invaso da disgustosi insetti, ad cui si sprigionavano vapori venefici, la carne battezzata dei fedeli in Cristo avrebbe riposato per sempre, all’ombra della protezione materna che la chiesa offriva, sino al Giorno glorioso della Resurrezione.
Nella complessa simbologia medioevale, quella soglia angusta, foriera di morte, era l’uscita destinata solo ai defunti, dopo la celebrazione delle esequie, e veniva interpretata secondo le parole di Gesù, riferite dall’evangelista Luca “Sforzatevi d’entrare per la porta stretta”.
Il significato allegorico era evidente: quell’accesso, cui la fantasia e la superstizione popolare attribuivano nefasti poteri su quanti, ancora vivi, l’avessero attraversato, sintetizzava in una formula così facile ed ermetica la complessa ritualità del passaggio dalla vita terrena all’esperienza spirituale.
Quel pertugio, dal lugubre significato, che si schiudeva come una breccia nella monotona continuità di possenti masse murarie rappresentava un transito obbligato verso una nuova dimensione dell’essere spirituale. “Ed ecco io faccio nuove tutte le cose” [S. Giovanni, Apocalisse]