Se le promesse del Legislatore (e le attuali premesse di tecnica del diritto) saranno mantenute la dichiarazione sostitutiva diverrà per i servizi funerari l’unico modo in cui formalizzare una determinata volontà, si pensi alla fattispecie più diffusa, ovvero ad un atto di disposizione per il post mortem.
Dalle acute ed intelligenti osservazioni di Serena Raffaelli, comparse sulle autorevoli pagine della pubblicazione: “Lo Stato Civile Italiano” apprendiamo come, effettivamente, sia già da più di mezzo secolo che il nostro ordinamento giuridico conosca e pratichi ( a fatica!) l’istituto della dichiarazione sostitutiva, ovvero di quello strumento nato per soppiantare definitivamente l’antica tradizione (o mala prassi consolidata e viziata da illegittimità?) delle pubbliche amministrazioni italiane di dover sempre richiedere un’attestazione di un altro loro apparato o plesso per ritenere provata o esistente una circostanza o un fatto oggetto di valutazione, ad es. per un’istanza proposta, nel nostro caso specifico, di polizia mortuaria, atta ad avere di volta in volta un’autorizzazione al trasporto, alla traslazione, alla cremazione…senza voler esser esaustivi, almeno in questa sede.
Il mutamento con ripetute riforme, valide almeno sulla carta, ma forse mai implementate con convinzione, avrebbe dovuto provocare una piccola, grande rivoluzione nelle relazioni spesso tese e tentacolari tra il privato cittadino e la burocrazia, sovente citata tra i grandi mali d’Italia e freno allo sviluppo di interi settori, i quali con le istituzioni locali debbono, in ogni maniera, pur sempre interagire ed interfacciarsi.
La L. 15 del 4 gennaio 1968 permise per la prima volta ai cittadini italiani di dichiarare autonomamente l’esistenza di elementi o presupposti di un procedimento amministrativo, anziché di doversi munire della relativa attestazione, rilasciata, semmai da un organo amministrativo terzo rispetto a quello titolare del iter procedimentale in corso.
È nota la difficoltà che tale legge ha vissuto nell’essere applicata appieno proprio da quella stessa P.A. cui le dichiarazioni sostitutive erano indirizzate e rivolte, su impulso di parte.
Si sono, infatti, resi necessari più interventi normativi per tentare di rendere effettivamente operativo detto istituto: il D.P.R. 445/2000 e la successiva modifica in forza del D.L. 216/2011 che ha imposto la sanzione della nullità per i certificati presentati o acquisiti da una P.A. nell’ambito di un procedimento amministrativo sono sintomatici su quanto sia stato ardua da assimilare e, poi, da porre in essere questa novella legislativa di grande impatto, nei rapporti a volte poco idilliaci tra pubblico e privato.
La ‘colpa’ delle resistenze ingiustificate della P.A. ad accettare le dichiarazioni sostitutive spesso è stata ascritta ed attribuita ad una sorta di inveterata, atavica ed, in quale modo quasi anche ancestrale, inerzia dei funzionari, sacri depositari di incomprensibili, ai più, riti amministrativi e di alta gestione.
La prefata ignavia sarebbe stata determinata, da un lato, dalla difficoltà ad accettare il cambio di ottica e prospettiva che la L. 15/1968, prima, e il D.P.R. 445/2000 poi (transitando per la l. 241/1990 e s.m.i., quindi nelle sua varie versioni e riscritture), hanno introdotto nell’ordinamento, in cui la P.A. non sarebbe più risultata in posizione di sovraordinata preminenza strutturale sulle posizioni giuridiche soggettive del comune cittadino.
Dall’altro, si è scaricata la responsabilità del maggiore o minore fallimento dell’istituto sulla mancanza di volontà della P.A. di ottenere le doverose conferme di quanto dichiarato dai cittadini ed alla sfiducia di fondo nei confronti del cittadino stesso, reputato spesso furbo e presunto “bugiardo”; accline ad affermare il falso e negare il vero, verso cui le sanzioni penali comminate e ventilate dall’art. 76 D.P.R. n. 445/2000, non agirebbero proprio da deterrente, per la facilità con la quale potrebbero esser eluse o, comunque, depotenziate, al punto da non riuscire più come una reale e percepita minaccia, verso chi voglia commettere atti antigiuridici.
Nella sua puntuale ed illuminante disamina Serena Raffaelli ritiene che queste argomentazioni potessero, invero, costituire una parziale spiegazione del fenomeno di spontaneo rigetto della riforma e della scarsa fortuna dell’istituto fino a qualche anno fa: ma certamente non ne avrebbero potuto essere l’unica materiale e ragionevole giustificazione.
Al contrario, non possiamo – forse – sostenere che la mancata, piena attuazione delle previsioni della L. 15/1968 prima e del DPR 445/2000 poi, non sia dovuta solo ai corpi “inerti” e refrattari al cambiamento di cui consta parte dell’italica burocrazia?
O, non vi sono, per caso, motivi di carattere sostanziale che minano e compromettono alla radice l’effettivo buon funzionamento di questa opportunità di reale snellimento nell’azione quotidiana del disbrigo pratiche?
Ci riferiamo alle storture ed alle lacune che sono contenute nello stesso testo istitutivo, mentre il legislatore degli ultimi 20 anni ha manifestamente continuato ad ignorarle senza porvi alcun rimedio.
I “bug” di sistema ed i malfunzionamenti traggono origine dalle deroghe al meccanismo virtuoso che sottende l’istituto stesso della dichiarazione sostitutiva di certificazione e di atto di notorietà, ovvero nella possibilità concreta per la P.A. che ha ricevuto la dichiarazione di poterla agevolmente riscontrare.
A modesto parere di chi scrive, le dichiarazioni sostitutive di certificazione e di atto di notorietà dovrebbero essere accettate, quindi sottoscritte e poste agli atti del fascicolo aperto nella fase istruttoria, solo ed esclusivamente nei casi in cui la P.A. procedente che le accoglie sia in grado di vagliarne in maniera certa la veridicità (assoluta o putativa???).
Non pretendiamo più anche rapida, perché la velocità deve essere considerata una premessa ormai acquisita per le PP.AA (procedenti e certificanti) che sono (…o devono necessariamente essere) in grado di comunicare fra loro telematicamente in modo celere, smaterializzando le informazioni, se necessario, in codici informatici, con il sostegno di una tecnologia, oggi, facilmente accessibile a tutti.
Al contempo, però, deve essere possibile un controllo certo e sicuro del dato dichiarato: altrimenti ammettere il ricorso alla dichiarazione sostitutiva, ad esempio, per una volontà che non può essere verificata rende l’istituto inaffidabile e pericoloso, perché troppo permeabile a certi abusi o distorcimenti capziosi e surrettizi.
L’eccessiva semplificazione, in nome di una fretta sempre più parossistica, però, può anche esser, come prima rilevato,
- inaffidabile, perché quando la controprova non è chiara ed oggettiva, l’amministrazione procedente si troverà nell’imbarazzo di reputare, con un evidente eccesso di discrezionalità, se sia dimostrato e soddisfatto o meno un requisito, con le ovvie difficoltà conseguenti in relazione all’adozione sicura del provvedimento conclusivo del procedimento, amministrativo che deve, in ogni caso, avere durata certa. Ciò ingenera un sentimento diffuso di sfiducia verso questo mezzo, denominato auto-dichiarazione o atto sostitutivo, altrimenti utilissimo ed assai efficace, per comprimere consentaneamente il timing tecnico necessario al perfezionamento di un provvedimento…d’altronde si sa: il mondo corre sempre più forte…!
- Pericoloso, si diceva, d’altro canto, perché ciò che non può essere facilmente accertato spalanca le porte e le finestre all’elusione della norma: ed ecco che anche questo profilo contribuisce all’ostilità, nemmeno tanto preconcetta, con cui le PP.AA. guardano alle dichiarazioni sostitutive, specialmente quelle di atto di notorietà di cui all’art. 47 D.P.R. n. 445/2000.