Il Post ha pubblicato un interessante articolo su di uno studio internazionale, riportato sul New England Journal of Medicine (NEJM), che ha approfondito cosa succede negli attimi immediatamente successivi alla morte, prima di procedere ad un eventuale espianto degli organi in caso di donazione.
Lo studio, condotto su oltre 600 pazienti, deceduti in venti unità di terapia intensiva di diversi Paesi, ha riscontrato segni di attività cardiaca, per un brevissimo lasso di tempo – ma sempre nell’ambito dei confini temporali tracciati dalle procedure standard sulla diagnosi di morte – anche in pazienti, di cui era stata precedentemente accertata la morte irreversibile.
Nello specifico, i ricercatori hanno monitorato per trenta minuti il quadro clinico dei pazienti, dopo l’interruzione programmata dei sistemi per il supporto vitale, constatando che il 14 per cento dei casi analizzati mostrava segni di attività cardiaca, anche dopo la cessazione del battito.
Il periodo più breve intercorso tra la cessazione del battito e la ripresa dell’attività cardiaca – anche soltanto una pulsazione – è stato di 64 secondi; il più lungo 4 minuti e 20 secondi.
Questo non genera implicazioni sul fatto che la persona dichiarata morta possa tornare in vita, ma semplicemente aiuta a meglio definire la morte dal punto di vista medico, conferendole una connotazione più simile ad un continuum che non ad una repentina interruzione.
Il corpo, cioè, risulta essere programmato per tentare di prolungare la vita quanto più a lungo possibile, anche se questo non significa necessariamente che la persona sia in condizioni di poter effettivamente sopravvivere.
In molti Paesi le procedure cliniche prevedono di attendere cinque minuti, dopo la cessazione dell’attività circolatoria, prima di accertare la morte e procedere all’eventuale espianto degli organi e, nel caso di eventuali segni di ripresa momentanea dell’attività cardiaca o respiratoria, tale conteggio dei cinque minuti riparte da zero.
La morte è universalmente unica e le definizioni di cardiaca o cerebrale ne differenziano unicamente la modalità.
Nel caso di arresto cardiocircolatorio, l’accertamento della morte si effettua osservando e documentando l’assenza della funzione del cuore per un periodo di tempo sufficiente ad avere la certezza che il cervello abbia subito un danno totale e irreversibile.
Nel caso di morte encefalica l’accertamento si effettua documentando la mancanza di tutte le funzioni del cervello, che differenziano la vita dalla morte.
La gestione del tempo rappresenta, inoltre, un fattore essenziale, nel caso delle donazioni di organi.
Organi come i reni possono essere mantenuti vitali per oltre un giorno, mentre il cuore – ad esempio – deve essere trapiantato entro poche ore.
Qualsivoglia ritardo lungo la catena può determinare, nei casi più sfortunati, anche la morte dei destinatari degli organi. Inoltre, la quantità di tempo trascorsa, in assenza di circolazione sanguigna, può influire negativamente sugli organi destinati all’espianto, causandone il deterioramento.
Un caso eccezionale – documentato nel 1999 – potrebbe, a prima vista, apparire come un “ritorno alla vita”, anche se in realtà è stato riconducibile ad una serie di fortunate coincidenze, praticamente irripetibili.
Una radiologa svedese, Anna Bagenholm, mentre sciava fuoripista con due colleghi sui Monti Scandinavi cadde a capofitto in un ruscello ghiacciato.
Dopo circa 40 minuti dalla caduta andò in arresto cardiocircolatorio, e solo dopo altri 40 minuti la squadra di soccorso, sopraggiunta sul luogo dell’incidente la estrasse dal ghiaccio, in assenza di polso e respirazione, praticandole ciò nonostante lunghe procedure di rianimazione.
Trasportata in elicottero all’ospedale, dopo che erano trascorse due ore e mezzo dall’incidente, presentava una temperatura corporea pari a 13,7 °C, mentre l’elettrocardiogramma riportava una linea completamente piatta.
Si decise di non dichiarare la Bagenholm morta, prima di aver fatto un ulteriore tentativo di salvarla, facendo gradualmente risalire la temperatura corporea, pensando – a ragione – che l’ambiente straordinariamente freddo, in cui si era ritrovato il cervello, avesse gradualmente ridotto la richiesta di ossigeno, ordinariamente necessaria.
In condizioni normali e ad una temperatura di 37 °C il cervello non resiste più di venti minuti senza ossigeno, prima di subire danni irreversibili. Ma in questo peculiare caso il progressivo rallentamento del metabolismo del corpo aveva in qualche modo permesso al cervello di resistere con molto meno ossigeno (unitamente a quello poi fornito dalla rianimazione cardiopolmonare, effettuata sul luogo dell’incidente, che fu altrettanto fondamentale).
Così, pompando per diverse ore sangue riscaldato e ossigenato nel corpo, per far risalire la temperatura corporea, solamente il giorno dopo l’incidente il cuore ricominciò a battere autonomamente.
Dopo dodici giorni la Bagenholm aprì gli occhi, ancora in preda a danni dei nervi periferici. E solo dopo un intero anno, la signora fu di nuovo in grado di muoversi e di camminare, riprendendo la sua vita normale.
Ed oggi la sua storia viene mostrata come esempio di punto di svolta nell’approccio medico alla morte per ipotermia.