I processi trasformativi del cadavere e di disgregazione della materia organica, che possono avere durata più o meno lunga, in relazione alla forma di sepoltura prescelta, devono necessariamente compiersi secondo l’ordine naturale delle cose, assicurando un’attività cimiteriale a regolata rotazione, secondo i rispettivi periodi di sepoltura legale prestabiliti, ad esempio, dal regolamento governativo di polizia mortuaria.
Il Legislatore tendenzialmente – salvo elevatissimi privilegi da riconoscersi ai Grandi! – esclude una conservazione del corpo esanime a tempo indeterminato e sine die (ma anche eccedente tempi normali di scheletrizzazione), tanto che quando tali fenomeni trasformativi cadaverici registrino – per una pluralità di fattori – esiti, anche conservativi, nella gestione ordinaria del camposanto si è in presenza di criticità, non facilmente superabili, se non con la cremazione massiva dei c.d. resti mortali inconsunti, provenienti da esumazione o estumulazione.
Ecco allora il distorcimento del cimitero ad accumulo, tipico prodotto “scatolare” dell’esperienza italiana. Stesso parametro si potrebbe applicare anche quando si ricorra massivamente alla tumulazione stagna dei defunti, come già accade.
Essa, per le caratteristiche richieste nel confezionamento del doppio feretro, nonché per quelle dettate sulla costruzione e tamponatura del loculi – si pensi al requisito, per le celle murarie, dell’impermeabilità ai liquidi ed ai gas putrefattivi (sic!) – denuncia un’impostazione maggiormente conservativa, troppo prudente, quasi si anteponessero paure (sopravvalutate?) di carattere igienico-sanitario (perfusione all’esterno del tumulo di materiale putrefattivo e miasmi cadaverici) per il buon funzionamento della macchina cimiteriale.
L’ordinamento giuridico assume come tecnica di default, per lo smaltimento controllato dei corpi umani morti, la pratica post mortem dell’inumazione in campo comune di terra, che per altro è teleologicamente orientata ad escludere una conservazione a tempo indefinito delle spoglie mortali, pur in presenza di quanto previsto dall’art. 86, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.
Un certo filone interpretativo della dottrina parrebbe negare la legittimità di estumulazioni dalle concessioni perpetue, le quali, per altro, possono aversi solo in quanto sorte in epoca antecedente al 9 febbraio 1976, dato che successivamente è stato abrogato il regime delle tombe a tempo illimitato.
Così non possono più sorgere concessioni perpetue, almeno dalla pubblicazione in G.U. del divieto espressamente formulato dal Legislatore, anche se alcuni studiosi (con una posizione nettamente minoritaria) preferirebbero far risalire il superamento della perpetuità al 28 ottobre 1941, ossia facendo riferimento all’entrata in vigore del Libro III del codice civile.
Per altro, inibire ope legis ogni eventuale estumulazione che interessi le concessioni perpetue, risulta altamente inefficiente e con effetti di sicura paralisi del sistema cimiteriale, in primis per le famiglie titolari dei sepolcri privati de quo.
Il motivo è abbastanza intuibile: una volta saturata la capienza fisica del sepolcro, questa proibizione non consente neppure a distanza di diversi decenni, la possibilità di ulteriore impiego della tomba, magari pluriposto, con conseguente venire meno dell’interesse alla sua manutenzione in solido e decoroso stato ex art. 63 D.P.R. n. 285/1990.
Ciò ingenera spontaneamente condotte ed atteggiamenti di abbandono dei sepolcri e determina, anche, problemi nella gestione cimiteriale non di poco conto, poiché gli oneri considerati all’art. 63 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 dovrebbero persistere per l’intera durata della concessione, cioè in perpetuo, per sempre (trattandosi di concessioni per l’appunto perpetue).
L’imbalsamazione
Va considerato come la rarefazione del ricorso all’imbalsamazione, pratica funebre elitaria ed estrema, nonché riservata di solito alle grandi personalità, religiose o civili, trovi una propria motivazione in questo principio igienico-sanitario, insito nei precordi di ogni moderna legislazione funeraria.
In ambito regionale, l’imbalsamazione è considerata, congiuntamente alla tanatoprassi, all’art. 4, comma 8 l.r. (Lombardia) 18 novembre 2003, n. 22, oggi art. 70, comma 8 l.r. (Lombardia) 30 dicembre 2009, n. 33, con rinvio alle modalità stabilite dalla normativa nazionale e regionale e, successivamente, all’art. 46 reg. reg. (Lombardia) 9 novembre 2004, n. 6 e succ. modif.
In modo del tutto analogo, per non dire mutuato, l’art. 3, comma 4 l.r. (Marche) 1° febbraio 2005, n. 5, nonché l’art. 13, comma 2 l.r. (Veneto) 4 marzo 2010, n. 18 e succ. modif. e il pressoché identico art. 12, comma 2 l.r. (Friuli-Venezia Giulia) 21 ottobre 2011, n. 12 e s. m. , ricordandosi altresì l’art. 14 l. r. (Basilicata) 31 maggio 2016, n. 11.
L’art. 3, comma 7 l.r. (Piemonte) 3 agosto 2011, n. 15 prevede che, negli obitori e nelle strutture per il commiato sono consentiti trattamenti di imbalsamazione e tanatoprassi nei limiti e secondo le modalità stabiliti dalla normativa nazionale e regionale, cosicché l’art. 15 reg.reg. (Piemonte) d.p.g.r. n. 7/R dell’8 agosto 2012 e succ. modif., proponendosi di dare attuazione a tale disposizione della legge regionale, prescrive che tali trattamenti:
a) siano richiesti dai familiari,
b) possano iniziare dopo l’accertamento della morte, tra l’altro considerando una procedura (comma 2) che richiama, nella propria sostanza, le previsioni già presenti, per l’imbalsamazione, all’art. 46 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, senza per altro abrogare quest’ultimo in termini espressi (ma producendosi l’effetto dell’abrogazione implicita, alla luce dell’art. 15 Disposizioni sulla legge in generale (c. d. Preleggi) trattandosi di norma successiva, di pari rango).
Per inciso, il citato art. 46 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, prevedeva una cautela non più presente nell’art. 15, comma 2 reg.reg. (Piemonte) d.p.g.r. n. 7/R dell’8 agosto 2012 e succ. modif., cioè la duplice e distinta (medico curante, medico necroscopo) certificazione escludente il sospetto che la morte sia dovuta a reato.
Inoltre, il comma 4 esclude l’imbalsamazione dei cadaveri portatori di radioattività o portatori di malattie infettive.
L’art. 14 l.r. (Abruzzo) 10 agosto 2012, n. 41 e succ. modif. viene, per molti versi, a sostituirsi alle disposizioni degli artt. 46 e 47 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, prevedendo una richiesta, duplice (l’art. 46, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 ne prevede/va una sola, rivolta all’autorità titolare dell’autorizzazione (art. 107, comma 3, lett. f) testo unico, d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. modif.), fermo restando il controllo da parte dell’ASL), in cui uno dei soggetti destinatari della richiesta (l’ASL) è chiamato unicamente all’espressione di un parere e alla vigilanza, duplicazione che va nella direzione opposta alla logica di un qualche “sportello unico”.
Per altro una siffatta disposizione presenta alcune peculiarità, la prima (comma 4) comportante l’inibizione dell’imbalsamazione nei casi di cadaveri portatori di radioattività o di malattie infettive, aspetto su cui si evita di entrare nel merito, la seconda che si conserva la prescrizione della “distinta” certificazione, tanto del medico curante e del medico necroscopo, escludente il sospetto che la morte sia dovuta a reato (art. 46, comma 2, lett. b) D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285) anche se la formulazione dell’art. 14, comma 2, terzo periodo, l.r. (Abruzzo) 10 agosto 2012, n. 41 e succ. modif. risulta meno chiara.
La terza riguarda la legittimazione a richiedere l’autorizzazione all’imbalsamazione, in cui si ritrova il riferimento al “nucleo familiare”, considerato all’art. 10, comma 5 l.r. (Abruzzo) 10 agosto 2012, n. 41 e succ. modif., individuando una tale legittimazione in soggetti che non dovrebbero avere titolarità alcuna in materia (individuazione soggettiva che attiene alla materia dell’ordinamento civile (art. 117, comma 2, lett. l) Cost.), considerandosi, oltre al coniuge (e/o parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso) ed ai figli – legittimi, legittimati.
Va ricordato come, successivamente, l’istituto della legittimazione sia stato caducato, dal 1° gennaio 2013, per quanto disposto dall’art. 1, comma 10 l. 10 dicembre 2012, n. 219, che ha, inoltre, previsto, attraverso una delega legislativa, il superamento del termine “figli legittimi” con quello di “figli nati nel matrimonio” (sic!), naturali, riconosciuti ed adottivi.
Per inciso, il rapporto di adozione, salvo quando non produca – in relazione allo specifico istituto adottivo – gli effetti di cui all’art. 27 l. 4 maggio 1983, n. 184 e succ. modif. (caso nel quale l’adottato assume lo stato di figlio legittimo salvi i divieti matrimoniali) non fa sorgere alcun rapporto di filiazione, così come non determina un rapporto di parentela (quando ricorra il carattere della parentela nel grado di maggiore prossimità) agli ascendenti, discendenti, collaterali, e altresì, in modo del tutto anomalo, agli affini, anche qui, fino al 3° grado.