Entrare, […almeno molto formalmente] da semplici e privati cittadini, nel sancta sanctorum della polizia mortuaria di un nosocomio, seppur con traballante qualifica di presunto… addetto ai lavori) non fu impresa facile; occorsero diverse autorizzazioni da parte dei famigliari dei defunti (una sorta di nulla osta al trattamento dei medesimi) e della stessa direzione ospedaliera, anche per tutelare la privacy di questo luogo ai più inaccessibile, per ovvie ragioni etiche, di logistica e sicurezza.
La finalità del corso, cui partecipai, incentrato su una metodologia meramente applicativa e “sul campo”, a diretto contatto con salme e cadaveri da manipolare ed abbigliare, fu quella di fornire ai partecipanti gli strumenti teorici ed operativi per saper riconoscere e gestire i processi del “post mortem” durante le fasi della vestizione e della veglia funebre, sino alla chiusura del cofano ed al suo confezionamento in relazione al trasporto ed alla destinazione del feretro.
Diversi gli argomenti trattati, siccome si svariò dalle nozioni di igiene e profilassi sino ad alcune nozioni di diritto penale sulla tutela del cadavere, naturalmente senza dimenticare elementi di estetica funeraria , tecniche di vestizione e la tempistica degli adempimenti amministrativi in seguito ad un decesso.
Da sempre i morti suscitano angoscia e paura, ma nello stesso tempo la loro visione solleva un’inspiegabile e morbosa curiosità verso l’enigmatica maschera di tragica serenità che si imprime sul volto dei defunti irrigidita nell’eternità di un istante, forse in quell’ultimo atto di vanità e consumo rappresentato dal desiderio legittimo (o forse… dal diritto?) di esser belli anche nella propria dipartita terrena.
Nella camera mortuaria ospedaliera, incorniciata da arredi sacri componibili forniti dalle imprese funebri si lavorava con ritmo frenetico e percussivo e, quasi ossessivamente si rinnovava la buia scena del Calvario tipico soggetto della Pietà, che si ripete, parossistica, ogni giorno presso le camere ardenti, nei luoghi teatro di sinistri ed incidenti, con la pietosa deposizione delle salme ed il mesto corteo che si avvia al cimitero, dove una vita, una storia umana irripetibile, a noi il più delle volte sconosciuta, è spinta per sempre nel buio di una cella muraria, tra le fiamme o nel freddo di una terra smossa e violentata dalla pala di un escavatore.
Gettai un ultimo sguardo su un feretro appena chiuso di squisita fattura.
Se si osserva con attenzione si nota un’incredibile raffinatezza di tutti i dettagli.
Non c’è un angolo retto, non c’è una superficie piana, non ci sono due rette parallele. Tutte le superfici e gli spigoli sono svergolati nello spazio e accompagnano l’aria con movimenti sinuosi e morbidi.
Nel riverbero del tramonto scorrevano lacrime perlacee, tra sorrisi sinistri, di circostanza, e sgomento degli ultimi dolenti che s’affollavano nelle camere ardenti, d’improvviso mi sovviene un’ultima riflessione: questo nostro vituperato mestiere costituisce un colpo formidabile, vibrato contro la morale dei benpensanti.
Quest’urto non è costruito su disgusto e repulsione, siccome ha la forza di suscitare un fascio di emozioni violente, che spaziano dalla dolcezza amara dell’amore sofferto per un lavoro troppo spesso ingrato e mal considerato, all’energia dirompente di chi vive un’esperienza assoluta, al di là del bene e del male, non più come orgogliosa bandiera di ribellione, ma quale sfida introspettiva, ritorta su se stessa con, a volte, lo sghignazzo greve ad illustrare la desolazione.
Queste due giornate in obitorio sono state una turbinosa navigazione tra sentimenti esasperati e contraddittori, una passione per l’estetica mortuaria salutata con stupore infantile e una angosciata solitudine si sovrappongono a provocazioni trucide ed angelico candore, mentre ancora modello sulle labbra cristalline e livide dei miei “adorati” cadaveri espressioni maledette e disperate.
Emerse, poi, questo quesito piuttosto spinoso.
Per le salme di persone affette da handicap fisico e localizzato negli arti, si pensi ai casi di braccia o gambe rattrappite per atrofia muscolare, è molto più problematico, e quasi impossibile, rompere la rigidità cadaverica.
Tecnicamente si potrebbe incidere l’articolazione per per recidere i legamenti e distendere così la massa fibrosa rappresentata dal muscolo.
La giuntura diverrebbe molto più malleabile e sciolta, così da poter agevolmente comporre il corpo.
Il tanatoesteta si troverebbe, però, dinnanzi ad una questione di coscienza al di là degli ovvi riflessi di natura penale: è, infatti, giusto intervenire nel post mortem per ripristinare un’illusione di normalità?
Ha un senso slogare, ferire, un corpo pur di renderlo nella morte così come non era mai stato in vita?
Perché violentare la natura, già di per sé dolorosa, di un soggetto affetto, quando era in vita, da malformazioni.
La presunta necessità da macellai di rompere e spezzare la spoglia, per poterla sistemare nella cassa, è una pura leggenda metropolitana, infondata e di pessimo gusto, per giunta.
Non esiste nessuna difficoltà operativa nella scelta della cassa che possa spingere ad operazioni illegali di questo tipo e poi, di solito, una persona affetta da handicap presenta semmai gli arti atrofizzati e, quindi, più corti rispetto alla norma, o presunta tale.
Tutte le imprese funebri sono dotate, o possono dotarsi rapidamente, di casse particolari, anche per i casi fuori misura e poi, tra l’altro, bisogna considerare come la cassa non debba esser subito pronta, magari 10 minuti dopo il decesso.
Dalla morte al servizio funebre debbono trascorrere almeno 24 ore e con i moderni mezzi di trasporto l’impresario può chiedere ed ottenere in poche ore qualsiasi tipo di cofano dal costruttore di fiducia presso cui si serve.
Il problema, dunque, è squisitamente morale: sin dove può spingersi il legittimo e sincero desiderio di cambiare lo stato di una salma, in modo da renderla più presentabile e decorosa?
L’attività di tanatocosmesi deve sempre aprirsi con il riconoscimento della salma ed il termine identificazione non ha solo il valore anagrafico.
Il necroforo, infatti, per agire correttamente ha il dovere capire e saper leggere “la storia” di quella salma, anche dalla condizione in cui essa si trova.
Chi, per tragedia del destino, non ha avuto da vivo la possibilità di una vita, come gran parte dei propri coetanei, deve per forza subire un ennesimo affronto anche da morto, che ricordi anche dinnanzi al mistero della morte come il suo fisico fosse colpito da gravi menomazioni?
Interventi così invasivi e cruenti si conciliano ancora con il rispetto che l’operatore funebre deve alle salme?
Siamo dinnanzi ad una tanatoprassi estrema nella sua funzione consolatoria oppure ad un esempio di inutile violenza dettata dalla cultura dell’immagine e del benessere a tutti i costi?
Il dibattito era ed è ancora aperto…