Sia consentito affrontare lo spinoso problema in termini abbastanza formali e giuridici.
L’art. 16 comma 1 lett. b) D.P.R. 10 settembre 1990 n. 285 è stato implicitamente abrogato (fatta salva, forse, la fattispecie resuduale del trasporto necroscopico) in conseguenza dell’art. 1, comma 7-bis, terzo periodo, D.-L. 27 dicembre 2001, n. 392, convert. in L. 26 febbraio 2001, n. 26) che prevede come il traporto deldei defunti sia generalmente a pagamento, secondo una tariffa stabilita dall’autorità comunale (secondo il disposto dell’art. 16 comma 1 lett. a) D.P.R. n. 285/1990).
Anche quando dovesse ancora remotamente sussistere la possibilità di riconoscere all’autorità comunale la titolarità di fissare queste tariffe con apposita declaratoria ( D.M. 31/12/1983, dopo il suo “ripristino” nel testo originale da parte del T.A.R. Lazio, sez. I.ter n. 7570 del 5/6/-11/9/2003, che ha annullato le modifiche apportatevi dall’art. 2, punto 4) DM 1/7/2002), detta potestà sarebbe limitata alla mera definizione della tariffa concernente il solo trasporto funebre.
Questa operazione riuscirebbe, comunque, difficilmente sostenibile, in particolare nelle Regioni in cui siano vigenti (a prescindere dalla loro legittimità costituzionale o meno, in relazione all’art. 117, comma 2, lett. e) Cost.) norme legislative che inquadrino le prestazioni proprie delle onoranze funebri come comprensive di una serie di componenti (somministrazione di beni e servizi) (come è nel caso di cui all’art. 13 L. R. (Emilia-Romagna) 29 luglio 2004, n. 19 e succ. modif. e, di conseguenza considerino ormai il trasporto funebre come un’espressione di libera imprenditorialità, seppur sempre sottoposta ad autorizzazione comunale.
Tuttavia, anche volendo enucleare l’azione del trasporto di salma, di cadavere, di ceneri e di ossa umane o di resti mortali (si deve constatare come tale attività di mercato non sia suscettibile di rigida determinazione da parte di una qualche pubblica autorità, poiché perché se esistesse tale legittimazione “dirigista” (che se in essere costituirebbe anche un dovere per l’amministrazione competente) occorrerebbe una norma di rango primario tale da prevederla.
Pertanto la regola generale citata inizialmente, pur avendo fonte di tango primario (ormai), non può trovare applicazione poiché superata dalla Legislazione Regionale (e, del resto, è facile immaginare come molti Comune mai l’abbiano applicata e non per inerzia o intenzionale volontà di disattenderla).
Accademicamente, anche volendo caparbiamente riferirsi ancora al D.M. 31 dicembre 1983 questa ostinazione formalistica non offrirebbe risposte reali e fattive, in quanto l’indirizzo di alcune Amministrazioni Municipali sembra essere quello di comprendere nel “pacchetto” funerale non solo il trasporto, ma, appunto, un complesso di servizi e prestazioni, comprensivi di fornitura del feretro, diversificato in relazione alla pratica funeraria richiesta, alle modalità di trasporto, ai mezzi tempi e percorrenze dello stesso.
Bisognerebbe poi aggiungere il personale necessario per eventuali soste (es.: quelle per le esequie al fine della movimentazione, in tutta sicurezza del feretro) nel corso del trasporto, ma anche, in base delle richieste dei familiari o delle consuetudini locali contemplare altri elementi rituali (esempio: corone, cuscini, addobbi floreali, noleggio di paramenti per l’allestimento delle c.d. “camere ardenti”, necrologi e partecipazioni di lutto, ecc.), componenti tutte, molto variabili, che non possono essere oggetto di regolazione in via amministrativa, collocandosi sul piano delle ordinarie attività economiche sostanzialmente libere, nella determinazione dei prezzi e/o corrispettivi.
Si coglie per altro come, specie in alcune realtà (tipo nelle grandi realtà urbane), non manchino talora pulsioni orientate nella direzione dei cd. “funerali a prezzi calmierati”, in funzione di assicurare ai Cittadini una sorta di tutela di tipo consumeristico, che, negli obiettivi, potrebbe, forse, anche essere comprensibile ed apprezzabile.
Per altro, si deve, però, osservare come i Comuni non dispongano di strumenti efficaci ed idonei a consentire loro di garantire ai priori cittadini una tale protezione (salvo, forse, la collaudata soluzione che ultimamente sta perdendo consistenza, in termini di presenza sul territorio, anche per effetto di alcune disposizioni di legge, di porsi sul mercato offrendo essi stessi il medesimo servizio offerto da altri operatori economici privati , quando i prezzi praticati dal comune (o azienda riconducibile a questi) siano oggettivamente inferiori, sempre sotto il profilo imprenditoriale.
Per altro, quest’ipotesi un po’ retrò, e ciò giustifica il progressivo ridursi di presenza delle aziende “pubbliche” nel settore funebre, si scontra non tanto e non solo con il vincolo della separazione societaria (art. 5, comma 2 L. R. (Emilia-Romagna) 29 luglio 2004, n. 19 e succ. modif., ma – soprattutto – con la previsione dell’art. 13 (in particolare, comma 3) D.-L. 4 luglio 2006, n. 223, convert. in L. 4 agosto 2006, n. 248. Si potrebbero anche citare norme successive, che ispirate dalla stessa filosofia liberalizzatrice sotto il versante sostanziale.
In alcuni ambiti territoriali, sono state sperimentate soluzioni di cd. “funerali a prezzi calmierati”, esse per altro, risultano avere prodotto effetti non particolarmente esaltanti, in quanto, pur predisponendo formule contrattuali di componenti standard di servizi funebri, consentono ad ogni modo agli operatori, con un certo margine di manovra, di presentare servizi aggiuntivi o integrativi rispetto a quelli, formalmente, tipizzati, queste condotte commerciali alterano, di fatto, l’obiettivo originario che si prefiggono le amministrazioni locali, ma presentano pure il fattore di rischio di esser utilizzate in termini di indebita promozione, spendendo il nome del Comune, così questi approcci riconducibili alla c.d. “pubblicità ingannevole” diventano, di fatto, un boomerang.
Appare opportuno, in questo breve excursus normativo, ricordare qualche disposizione leggermente meno recente, quale (es.) l’art. 3, commi 8 e 9 D.-L. 13 agosto 2011, n. 138, convert. in L. 14 settembre 2011, n. 148 di cui sono abrogate (dal 13 dicembre 2011) alcune disposizioni e, considerando tale art. 3, comma 9, lett. h), senz’altro quella relativa ai prezzi minimi.
A questa norma si è poi sovrapposto l’art. 34 D.-L. 6 dicembre 2011, n. 201, convert. in L. 22 dicembre 2011, n. 214, che, pur se nominalmente simile sotto il profilo sostanziale, ha prodotto un nuovo effetto abrogativo, e con decorrenza 6 dicembre 2011.
In altre parole, anche soprassedendo su indirizzi e segnalazioni dell’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, talora lette e percepite, e sbandierate in modalità non sempre corrispondenti al loro tenore testuale, si esprime l’avviso di una effettiva impraticabilità dell’ipotesi affacciata, congiuntamente ad un’ultima riflessione, pur se di merito: anche se alcune imprese del settore aderissero, per proprie scelte strategiche e di posizionamento sul mercato , a schemi di pre-determinazione di prezzi, il pericolo sarebbe senz’altro quello di ottenere esiti incoerenti, con le finalità dell’amministrazione comunale intende perseguire, quando non anche opposti.
Probabilmente una maggior e concreta garanzia per il consumatore potrebbe provenire dalla piena attuazione dell’art. 13, comma 6 L. R. (Emilia-Romagna) 29 luglio 2004, n. 19 e succ. modif, che – oltretutto – costituisce un vero e proprio obbligo in capo al comune, ma rispetto a cui si nota spesso una certa qual resistenza, anche (ma non solo per questa ragione) per le difficoltà a provvedere in questo senso, verso una vera e propria trasparenza dei prezzi.