Oltre il tabù, la morte si fa bella

ImageVi invitiamo a leggere il seguente articolo che si trova su www.swissinfo.ch, a firma di Stefania Summermatterm pubblicato il 1/12/2010 e dal titolo: “Oltre il tabù, la morte si fa bella”, vi si illustra a mostra “Sul filo del tempo – morire” è la terza tappa di un progetto artistico sul ciclo della vita, promosso dal Museo di arte di Mendrisio (Svizzera). La terza mostra, sul Morire, è in programma fino al 18 dicembre 2010. Essa illustra temi come la negazione della morte e il desiderio dell’immortalità, gli aldilà religiosi e laici, la morte naturale e la morte violenta (con il capitolo delle pene di morte).

Un tempo la gente moriva in casa, in casa si vegliavano i morti per aiutarli a congedarsi dalla vita. Oggi la morte è stata emarginata: si fatica a parlare, a capire, ad accettare. L’esposizione “Sul filo del tempo – morire” ripercorre le mutazioni del senso del lutto lungo i secoli, attraverso oggetti, documenti e fotografie.

Spegnersi nel proprio letto, in piena coscienza e accanto alle persone amate è stato a lungo considerato il miglior modo di morire. Nel Settecento esistevano perfino dei manuali per aiutare la gente ad affrontare al meglio la sofferenza e il distacco, a convivere con il pensiero che questa signora con la scure potesse venire a prenderci da un momento all’altro.

La vicinanza con la morte era parte del ciclo naturale della vita, così come appare in una fotografia scattata dal ticinese Roberto Donetta ed esposta per l’occasione a Casa Croci a Mendrisio. Nel 1912, nella Valle di Blenio, una famiglia come altre sta vegliando il proprio defunto, parla con lui, prega per lui, mangia e dorme al suo fianco. Si moriva così cent’anni fa.

Oggi le cose sono cambiate, almeno in Occidente. «La nostra società vive come se la morte non esistesse perché, come direbbe Freud, ciascuno di noi è inconsciamente convinto di essere immortale», osserva Fabio Soldini, curatore dell’esposizione. «Si muore sempre più in ospedale, si fa fatica a trovare le parole per parlare della morte – soprattutto coi bambini – e quel lutto che una volta veniva esibito ora è interiorizzato, privatizzato».

I manuali sulla “buona morte” sono rimasti in auge fino all’Ottocento, mentre ora questo aspetto inevitabile della vita sembra essere sempre più emarginato, escluso, quasi fosse il nuovo tabù del XX secolo. Una tendenza che può avere conseguenze importanti sul piano collettivo, commenta il curatore. «Una società che riduce la propria ritualità attorno al morire, è una società che lascia totalmente soli gli individui. Così facendo, si crea una maggiore angoscia di fronte alla morte, perché non esiste più una risposta collettiva a questo evento che è inevitabilmente doloroso».

” Avevamo studiato per l’aldilà un fischio, un segno di riconoscimento. Mi provo a modularlo nella speranza che tutti siamo già morti senza saperlo. “
Eugenio Montale (Satura)
Oltre la soglia

«Le religioni insegnano che, al momento della morte e della disgregazione del corpo, l’anima è destinata a uno stato (la beatitudine) e ad un luogo (l’eden)», ci spiega Fabio Soldini. «La religione cristiana ha elaborato un modello tripartito, con inferno, paradiso e purgatorio. Al di là dei dogmi, però, c’era la convinzione e la speranza che il varco tra la vita e la morte non fosse un muro separatore e invalicabile».

Da un lato si credeva che, in determinate occasioni, i morti potessero tornare indietro nel regno dei vivi. «Fino alla seconda guerra mondiale, i nostri bisnonni facevano cuocere le castagne per poi lasciarle in dono ai morti il giorno della festa dei Santi, il 1° di novembre», osserva Soldini. Una tradizione che si ritrova anche nel Sud Italia, dove i fedeli lasciavano qualcosa da mangiare ai propri defunti direttamente sulle tombe al cimitero.

Ma il contatto con l’aldilà si poteva instaurare anche nel senso inverso. C’era infatti il desiderio di riuscire in qualche modo a interferire nel regno dei morti, attraverso preghiere o altre pratiche rituali. L’esempio più noto è sicuramente quello delle indulgenze, il cui scopo è di alleviare o accorciare la sofferenza dei defunti in una sorta di «co-gestione da parte di Dio e degli uomini del Purgatorio».

Attraverso le preghiere, i vivi potevano arrivare perfino a cambiare il destino dei defunti, spiega Soldini. «Fino a pochi anni fa la Chiesa cattolica professava che quando i neonati morivano senza essere stati battezzati finissero nel limbo e non in paradiso. La devozione popolare credeva invece che si potesse “salvare” la loro anima: occorreva utilizzare delle candele “a sette giri”. La madre andava a messa per sette giorni di fila e accendeva ogni giorno un nuovo giro di candela, convinta così di poter purificare l’anima del suo bimbo».

Questo legame tra l’aldilà e l’aldiquà si ritrova anche nella tomba di epoca romana ricostruita per l’occasione al museo di Mendrisio, con tutto il suo corredo originale. La defunta – ritrovata nella Necropoli di Locarno – veniva provvista di viveri e denaro per il viaggio ultraterreno: piatti, coppette, gioielli e monete sono così giunti fino a noi, rivelatori universali di culture e usanze ormai dimenticate.

Le dimore dei defunti

La collocazione dei propri defunti è un aspetto centrale per alcune religioni e culture e l’evoluzione delle usanze nel corso dei secoli testimonia i cambiamenti del rapporto di un’intera società con la morte. I cimiteri, si sa, sono un’invenzione moderna. «Per secoli i cadaveri sono stati sepolti in chiesa, stretti anonimamente attorno all’altare, in attesa di condividere il destino della resurrezione», conferma Soldini.

Poi, per ragioni igienico-sanitarie, nella prima metà dell’Ottocento iniziano a comparire i primi cimiteri, le tombe individuali e famigliari e gli epitaffi. «Alcuni cimiteri – come il Père Lachaise parigino – si sono trasformati in vere e proprie città, mete di pellegrinaggio e preghiera, ma anche di un turismo occasionale attirato da tombe celebri come quella di Jim Morrison».

Ora, nuovi costumi stanno prendendo forma, racconta il nostro interlocutore: «il lutto si interiorizza, le visite al cimitero si diradano e la commemorazione dei defunti si trasforma nella festa di Holloween». Proibita dalla chiesa fino al 1964, la cremazione si sta ormai generalizzando in Svizzera e sempre più spesso le ceneri vengono disperse nella natura – in cima a una montagna o nelle acque di un fiume – oppure conservate in casa. «Nei cimiteri di Zurigo, il 36% delle urne vengono messe in due fosse comuni in un grande giardino: l’una viene contrassegnata da una lapide su cui sono incisi i nomi dei defunti, mentre l’altra non ha alcun segno distintivo». Sembra quasi – commenta Soldini – che si stia tornando a un destino anonimo dei defunti, dalla volontà di conservarli nella memoria alla volontà di dimenticarli.

Ridere della morte

Se la vita si intreccia inevitabilmente con la morte, la società attuale la respinge per mero istinto di sopravvivenza, la occulta, la teme molto più di altre culture del passato. Visitare la mostra a Casa Croci comporta dunque anche una rinuncia all’indifferenza, soprattutto di fronte a quella violenza istituzionale che in alcuni paesi continua a mandare a morte i condannati.

Ma se le tariffe del boia di Lugano nell’Ottocento lasciano senza parole (12 franchi per l’impiccagione, 8 per il taglio della testa), di fronte alla morte a volte si può anche ridere. Ridere per esorcizzare la paura, ridere per scacciare la tristezza, o semplicemente ridere per entrare in contatto con la morte, per prenderla in considerazione.

Il nostro viaggio “sul filo del tempo” si conclude così, con un pizzico di leggerezza e scaramanzia. E mentre le lancette di un orologio britannico ci ricordano quanto la morte sia un destino ineluttabile (“Remerber – you will die”, proclamano senza tanti fronzoli), una vecchia pubblicità testimonia la forza della vita, o forse l’avanzare di un modello consumistico che ha portato l’uomo a smettere di interrogarsi sul significato della propria presenza nel mondo, e quindi anche della propria fine. “Vivo per miracolo. A nulla valsero cento farmaci ingeriti: ebbe salva la vita mangiando TORRONE PERUCCHI”. Insomma, come direbbero a Roma, “all’anima de li mortacci tua…”.

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