ALLEGATO 2
Illuminazione votiva, servizio pubblico locale, a rilevanza economica – Cessazioni “senza necessità di apposita deliberazione” – Problematiche connesse e derivantevi
Il servizio di illuminazione votiva nel cimiteri, in particolare quando assicurato quale illuminazione elettrica votiva, costituisce una delle componenti dell’attività cimiteriale che spesso ha dato origine a contenziosi, specialmente, e prevalentemente, in termini di giustizia amministrativa. Si potrebbe osservare come possa anche ritenersi che non si tratti di una componente dell’attività cimiteriale, se a ciò si attribuisca la valenza di componente propria, quanto piuttosto quella di un servizio aggiuntivo che, per sua stessa destinazione, non può che aversi se non all’interno del cimitero, oltretutto in termini di eventualità (essendo l’illuminazione votiva del tutto eventuale, in quanto presente non in tutti i cimiteri, quanto in quelli in cui essa si è radicata per uso locale e tradizione). Un tale carattere di eventualità coinvolge altresì le modalità, dato che, quando tale uso consuetudinario sia, localmente, presente, essa può avvenire ricorrendo a più modalità (es.: lumini, punti di illuminazione auto-alimentati – anche qui con differenti tecnologie – ecc.), delle quali quella maggiormente strutturata è l’illuminazione elettrica votiva a rete.
L’origine dell’illuminazione votiva presenta il carattere degli atti di memoria, di pietas, come segno materiale e visibile del fatto che i familiari conservano la memoria del proprio caro, spesso affermandovi una “imperitura” memoria, al punto che in alcune realtà si parla di “luce perpetua”, proprio ad affermare questo approccio da parte dei familiari.
Poiché, almeno in linea di massima, l’illuminazione votiva assicurata con modalità diverse da quella elettrica strutturata a rete, non ha dato luogo a particolari contenziosi giudiziali, di seguito si privilegerà quest’ultima, pur dovendosi considerare come alcuni degli aspetti che si affrontano in questa sede potrebbero, per quanto poco, riguardare anche l’illuminazione votiva realizzata con altre modalità.
Negli ultimi anni, si sono venuti a consolidare (pur con qualche pronuncia difforme, come è fisiologico sia) orientamenti giurisprudenziali, in sede di giustizia, amministrativa, e sia da parte di T.A.R. che, in sede di reclamo, del Consiglio di Stato, per i quali l’illuminazione elettrica votiva, a rete, costituisce un servizio pubblico locale, e, dopo l’introduzione della distinzione tra questi rispetto a quelli che avessero rilevanza industriale o meno (art. 35 L. 28 dicembre 2001, n. 448), rilevanza ri-denominata quale “economica” (art. 14, comma 1 D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, nella L. 24 novembre 2003, n. 326), quale servizio pubblico locale a rilevanza economica.
Tale ormai uniforme quanto consolidata giurisprudenza evidentemente ha determinato la conseguenza per cui le forme di gestione dovessero necessariamente rispondere a quelle previste per i servizi pubblici locali a rilevanza economica. Sul punto, non può omettersi di prendere atto di come la materia delle forme di gestione dei servizi pubblici locali sia venuta a costituire quella parte del testo unico, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. modif., che è stata interessata, con maggiore frequenza e, spesso, “velocità”, da mutamenti normativi, talora prevedendo termini per cessazioni, per così dire, “automatiche” di “affidamenti” (ricorrendo alla formula “… cessano …, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante, il …”, a volte, con un cautelare “ … improrogabilmente …”, o formule simili; senza qui, volutamente, considerare il termine per una tale cessazione che l’art. 113, comma 15-bis testo unico D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 – quale introdotto dall’art. 14, comma 1, lett. h) D.L. 30 settembre 2003 n. 269, convertito, con modificazioni in L. 24 novembre 2003, n. 326 – fissava, inizialmente, al 31 dicembre 2006, per altro con possibilità di differimento, in presenza di talune condizioni (tra l’altro, una tale previsione, circa la “cessazione senza necessità di apposita deliberazione”, è stata presente in norme ulteriormente successive, anche in materie non strettamente riferibili a quella delle forme di gestione dei servizi pubblici locali, a rilevanza economica (o meno): si pensi, a mero titolo di esempio e senza pretese di esaustività, all’art. 13, comma 3 D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, in L. 4 agosto 2006, n. 248 (nel testo iniziale), ma anche altre, in alcuni casi sanzionando l’osservanza della norma con la nullità degli atti posti in essere, nelle ipotesi di inadempienza). Un tale impianto è presente, più recentemente, nell’art. 34, comma 22 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221.
Per quanto riguarda il servizio pubblico locale a rilevanza economica dell’illuminazione elettrica votiva, non possono non darsi atto di come, nelle singole realtà, e con una certa frequenza, siano state carenti le condizioni di “affidamento”, sia per le procedure poste in essere (es.: ricorsi, più o meno propri, a metodi riconducibili alla trattativa privata, a volte anche con durate del tutto rilevanti), nonché per promiscuità e fraintendimenti rispetto ad istituti del testo unico, D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e succ. modif., valutandosi ora che si fosse in presenza di un contratto di costruzione e gestione, talaltra di gestione di un servizio, in cui la componente della “costruzione” fosse minoritaria, e strumentale, rispetto a quella della gestione, altre volte ancora argomentandosi se tale attività sia riconducibile alle concessioni di costruzione, oppure ai c.d. appalti di servizio. Di fatto, in numerosi casi, veniva sottovalutata la natura dell’illuminazione elettrica votiva quale servizio pubblico locale a rilevanza economica, qualificazione che avrebbe, forse di per sé stessa, portato a valutare le forme di gestione pertinenti alla bisogna (e ciò giustifica come il termine “affidamento/i” sia stato virgolettato e, quando occorrente, sarà). Gran parte della giurisprudenza, specie amministrativa, in questa materia ha trovato alimento proprio in questa non piena chiarezza sulla natura del servizio d’illuminazione elettrica votiva.
Il fatto che fossero presenti fraintendimenti o elementi di scarsa chiarezza, talora anche del tutto strumentalmente utilizzati, trova un esempio decisamente esplicito nell’art. 34, comma 26 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, laddove:
a) si interviene, sopprimendo le parole “e illuminazioni votive” sul n. 18 del D.M. (Interno) 31 dicembre 1983, e
b) traendone la conseguenza (…) per cui, “… per l’affidamento del servizio di illuminazione votiva, applicano le disposizioni di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006, e in particolare l’articolo 30 e, qualora ne ricorrano le condizioni, l’articolo 125. …”.
Occorre osservare come il D.M. (Interno) 31 dicembre 1983 non presenti attinenza alcuna con i servizi pubblici, in via generale, men che meno con i servizi pubblici locali a rilevanza economica, ma costituisca un’individuazione dei servizi pubblici locale a domanda individuale aventi rilievo (fino a che tale disposizione è rimasta operante, per tutti i comuni) ai fini dell’applicazione delle disposizioni dell’art. 6, comma 3 D.L. 28 febbraio 1983, n. 55, convertito, con modificazioni, nella L. 26 aprile 1983, n. 131, norma che prevedeva come gli EE.LL. dovessero definire la misura percentuale di copertura di alcuni costi complessivi di servizi pubblici a domanda individuale. Il cui costo complessivo doveva essere coperto in misura non inferiore ad una data percentuale (progressivamente prevista in crescita) dai ricavi delle tariffe per la loro fruizione corrisposte dagli utilizzatori. Dalla norma appare evidente come non si trattasse di servizi rivolti alla generalità della popolazione, quanto unicamente ai singoli fruitori in quanto tali. Si tratta di disposizioni che, nel tempo, sono venute meno, in quanto una percentuale di copertura, da ricavi derivanti da tariffe, è ormai presente solo per gli EE.LL. strutturalmente deficitari o in stato di dissesto (art. 243 testo unico, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. modif.) o, più recentemente, interessati da procedura di riequilibrio finanziario pluriennale (artt. 243-bis e ss. testo unico, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. modif.), al punto che vi è stato chi, non digiuno di problematiche di finanza locale, ha sollevato, quanto meno accademicamente, la questione se possa ancora farsi riferimento al D.M. (Interno) 31 dicembre 1983 come a fonte ancora assumibile a riferimento (quanto meno al di fuori dei casi sopra ricordati).
Per altro, l’intervento sul D.M. (Interno) 31 dicembre 1983 rende evidente la superficialità del percorso logico seguito, mirando essa ad intervenire sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali, a rilevanza economica, materia che non è certo regolata, né regolabile, con un atto amministrativo, quale è il D.M. citato, ma richiede (almeno) norma, oltretutto innegabilmente di rango primario, sulla base di riserva di legge enucleabile sulla base degli artt. 23, 43 e 117, comma 2, lett. p) Cost.. Oltretutto, neppure avendosi tenuto presente come, nelle premesse al D.M. citato si prende atto, con una specificazione forse neppure necessaria, che: “Ritenuto che non possono essere considerati servizi pubblici a domanda individuale quelli a carattere produttivo, per i quali il regime delle tariffe e dei prezzi esula dalla disciplina del menzionato art. 6 del decreto-legge 28 febbraio 1983 n. 55;”, premessa dove il riferimento al “carattere produttivo”, porta a considerare, sotto il profilo sostanziale, quelli che poi (dal 1° gennaio 2002) sono divenuti servizi pubblici locali a rilevanza industriale e, ulteriormente, di seguito, servizi pubblici locali a rilevanza economica, richiamando, per quanto con termini differenti, il medesimo concetto di fondo. A parte questo ultimo aspetto, maggiormente importante risulta esse la questione della riserva di legge, per cui si dovrebbe (o, deve?) trarre la conseguenza che un intervento di tale contenuto non abbia avuto forza di incidere sulle forme di gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica.
Ma, a questo irrituale primo periodo dell’art. 34, comma 26 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, segue un secondo per il quale, si dedurrebbe – conseguentemente – come l’affidamento del servizio (facendosi rilevare l’uso del termine “affidamento”, ma anche quello di “servizio” utilizzato senza altre specificazioni, dovrebbe avvenire in applicazione dell’art. 30 D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e succ. modif. o – qualora ne ricorrano le condizioni – del successivo art. 125. Ora la prima di essere riguarda le concessioni di servizi più che gli affidamenti, mentre il secondo ha ad oggetto i lavori, servizi e forniture in economia, che, per il fatto di essere esercitati in economia escludono un affidamento. Nel secondo caso si tratta, abbastanza chiaramente, di un rinvio ad alcune pronunce, rimaste abbastanza isolate, secondo cui un modesto importo dell’intervento portava ad escluderne la natura di servizio (pubblico locale) avente rilevanze economica, cioè per le quali la rilevanza economica era, più o meno, parametrabile rispetto all’entità dell’intervento, non alla natura oggettiva del servizio e, soprattutto, alla presenza di una pluralità di possibili operatori. Se ne ricava come questo “conseguentemente”, presente nel secondo periodo, costituisca una forzatura (intenzionale?) avente la finalità di sottrarre, in termini fattuali, dalla disciplina propria dei servizi pubblici locali a rilevanza economica le situazioni caratterizzate da un modesto importo dell’intervento.
Per altro, anche qui non difetta il fraintendimento (che, a ben vedere, è quello che sottende l’intero comma 26) di fondo circa le fonti normative proprie della disciplina dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, disciplina che, per le forme, non trova certo fonte nel D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e succ. modif. È già stato osservato, in precedenza, come il Titolo V della Parte 1^, testo unico, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. modif. sia stato interessato a plurime modifiche normative, alcune delle quali interessate anche dai referendum popolari (in particolare, facendosi qui, sommariamente – giusto per memoria, constatandosi come la frequenza e velocità delle modifiche normative possa favorirne un suo ottundimento – riferimento principalmente al Quesito n. 1) del 12-13 giugno 2011, cui ha fatto seguito l’art. 4 D.L. 13 agosto 2011 n.138, convertito, con modificazioni, in L. 14 settembre 2011 n. 148, a propria volta oggetto di ulteriori successive modifiche e di cui la Corte Costituzionale, con sentenza n. 199 del 20 luglio 2012, n. 199, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale (sia nel testo originario che in quello risultante dalle successive modificazioni), conseguendone che, allo stato (ricordando, altresì e per quanto rilevante, l’art. 1, commi da 550 a 569 L. 27 dicembre 2013, n. 147 “Legge di stabilità – 2014”), la disciplina degli affidamenti dei servizi pubblici locali, incluse le loro forme di gestione, è riconducibile alle disposizioni dell’art. 34, commi da 20 a 27 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221.
Per altro, proprio le irrituali forme di “affidamento”, i rapporti contrattuali relativi al servizio d’illuminazione elettrica votiva sono stati interessati a “cessazioni”, in alcuni casi anche con riferimento a termini temporali antecedenti rispetto a quella prevista negli atti contrattuali in precedenza stipulati.
La pronuncia del T.A.R. per la regione Lombardia, sede di Brescia, Sez. 2^, sent. n. 1132 del 14 dicembre 2013 (Allegato 1), viene a collocarsi in un tale contesto, affrontando la situazione di una concessione del servizio d’illuminazione elettrica votiva risalente al 1983, avvenuta con trattativa privata ed oggetto (1989) di proroga fino al 30 dicembre 2020, rispetto a cui era intervenuta comunicazione di cessazione del rapporto di concessione, con effetto dal 31 dicembre 2010, in applicazione dell’art. 23-bis, comma 8 D.L. 25 giugno 2008, n.112, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133. all’epoca vigente.
Il T.A.R. inizialmente distingue le questioni, sollevate dalla ditta ricorrente, che attengono alla proprietà della rete d’illuminazione elettrica votiva (e connesse problematiche circa la quantificazione della misura per un suo riscatto, aspetto che esula dall’ambito di conoscibilità della giurisdizione amministrativa) rispetto al rapporto sorto con la concessione del servizio medesimo (in via del tutto incidentale, può segnalarsi come sia considerata altresì l’ipotesi, in termini di plausibilità, che gli oneri circa il valore del riscatto della rete possano essere posti a carico di un eventuale futuro concessionario (o, più correttamente, affidatario del servizio) purché vi sia una specifica determinazione in tal senso da parte dell’amministrazione, che, nella fattispecie, è carente).
Per quanto riguarda la natura del servizio d’illuminazione votiva, rilevante sotto il profilo del rapporto di concessione, è assunto il principio per cui siano considerabili servizi privi di rilevanza economica quelli resi, agli utenti, in termini di mera erogazione, senza richiedere organizzazione d’impresa, mentre l’illuminazione elettrica votiva è riconducibile ai servizi (pubblici locali) a rilevanza economica, restando a questo ultimo fine non rilevante l’eventuale modesta misura di utile che consegua dall’esercizio del servizio. Non solo, ma, in presenza di un pubblico servizio, viene a conseguire l’inapplicabilità delle norme di cui agli artt. 30 e 143 D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e succ. modif..
Inoltre, valutando la parte ricorrente come il rapporto di concessione del servizio d’illuminazione elettrica votiva sia difficilmente quantificabile quale concessione di servizi a terzi, così fuoriuscendo dal contesto di applicazione dell’(allora vigente) art. 23-bis D.L. 25 giugno 2008, n.112, convertito, con modificazioni, in L. 6 agosto 2008, n. 133, asserto cui la sentenza si discosta, non solo affermando come le modifiche intervenute al D.M. (Interno) 31 dicembre 1983 sono ininfluenti, ma, soprattutto, considerando come le disposizioni dell’art. 34, commi da 20 a 27 D.L. 27 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, non abbiano natura ricognitiva, quanto innovativa, con ciò riconducendo l’attività dell’illuminazione elettrica votiva nell’ambito delle concessioni di servizio pubblico.
Per inciso, il T.A.R. affronta anche, nella fattispecie, la valutazione della data di cessazione della concessione, valutando le modifiche normative sopravvenute, pervenendo ad una ri-determinazione della data degli effetti di una tale cessazione con riferimento al 31 dicembre 2013, con conseguente prolungamento del periodo transitorio, anche alla luce dell’art. 34, comma 21 D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221.
La vicenda considerata, per quanto riguardante (nel caso così deciso) l’illuminazione elettrica votiva, fornisce per altro elementi di valutazione anche per altre attività, in particolare per quelle attività che hanno assunto un carattere di attività economica (come potrebbe essere la fattispecie dell’attività funebre, che, in origine (o, storicamente), aveva trovato fondamento tanto nell’art. 1, n. 8) testo Unico, R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578 e/o nell’art. 91, lett. c), n. 11) T.U.L.C.P., R.D. 3 marzo 1934, n. 383, per quanto limitato e, talora, con la sovrapposizione tra una componente (trasporto) e il complesso dell’attività, fino a giungere all’articolo unico, n. 18) D.M. (Interno) 31 dicembre 1983, il quale considera non solo il trasporto ma altresì le pompe funebri, richiamando, per altro, la portata di questo atto amministrativo di individuazione dei servizi pubblici locali a domanda individuazione, cui si sono in precedenza fatte considerazioni specifiche), scemandosi nel tempo alcuni elementi che (forse) in origine potevano qualificarle quali servizi pubblici, e che, per questo, difettano delle condizioni per un affidamento. Se in questo ambito possano porsi anche altre questioni, la più rilevante riguardante la persistenza o meno delle condizioni di ammissibilità di un loro svolgimento da parte degli EE.LL. (aspetto per il quale si va rinvio all’ordinanza del Consiglio di Stato, Sez. 3^, ordin. n. 5241 del 30 ottobre 2013, con cui sono state rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione europea due questioni del tutto rilevanti (1), rimessione che porta a non formulare, in questa sede, argomentazioni di sorta). Per altro, in tali casi, viene a porsi la questione circa gli effetti “automaticamente” caducatori derivanti dall’art. 34, comma 21, primo periodo, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, anche sul presupposto di come possano, e con una certa frequenza, non esservi neppure affidamenti, come conseguenza che si tratta di attività (non più, e da tempo) qualificabili quali servizi pubblici locali a rilevanza economica: Salvo il caso (probabilmente remoto quanto astratto) che l’ente locale, con proprio atto, adottato ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. e) testo unico, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e succ. modif., proceduto – ed espressamente – ad “attribuire” una qualificazione quale servizio pubblico locale a rilevanza economica, ipotesi oltretutto neppure facile, per ragioni di coerenza con la natura di attività economica, l’evoluzione normativa sopra richiamata solleva seri dubbi sull’ammissibilità dello svolgimento di tale attività oltre il 31 dicembre 2013, questione su cui, per quanto segnalata, si è riscontrata scarsa attenzione, non solo da parte dei soggetti esercenti tali attività, ma – soprattutto – da parte degli EE.LL., che, attorno a questi temi, appaiono essere stati ampiamente poco propensi a formulare argomentazioni sulla base delle quali adottare decisioni pertinenti, anche a pro delle proprie Comunità locali, in funzione di assicurare loro condizioni che siano volte al soddisfacimento di bisogni primari ed essenziali e di equità.
(1) Le questioni rimesse alla Corte di Giustizia dell’Unione europea sono state:
[1] “Dica la Corte di Giustizia se l’art. 1 della direttiva 50/1992, letta anche alla luce del successivo art. 1 par. 8 della direttiva 18/2004, ostano ad una normativa interna che fosse interpretata nel senso di escludere l’odierna appellante, in quanto azienda ospedaliera avente natura di ente pubblico economico, dalla partecipazione alle gare”,
nonché
[2] “Dica la Corte di Giustizia se il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici – in particolare, i principi generali di libera concorrenza, non discriminazione, proporzionalità – osti ad una normativa nazionale che permetta ad un soggetto, del tipo dell’azienda ospedaliera appellante, che beneficia stabilmente di risorse pubbliche e che è affidataria in via diretta del servizio pubblico sanitario, di lucrare da tale situazione un vantaggio competitivo determinante nel confronto concorrenziale con altri operatori economici - come dimostra l’entità del ribasso offerto - senza che siano previste al contempo misure correttive volte ad evitare un simile effetto distorsivo della concorrenza.”