ALLEGATO 2
Consiglio di Stato, Sez. V^, sent. n. 842 dell'8 febbraio 2011 - Considerazioni


Un comune (Provincia Autonoma di Trento) aveva dichiarato (1997) la decadenza da una concessione cimiteriale, in cui la prima sepoltura era stata effettuata nel 1888, provvedimento contro il quale le persone interessate avevano presentato ricorso al T.R.G.A. della Provincia autonoma, accolto dal giudice amministrativo.
Il comune soccombente ha impugnato la decisione di primo grado del giudice amministrativo, eccependo l'insussistenza di un titolo relativo alla concessione, così come la carenza della intavolazione del diritto relativo alla concessione (nel sistema tavolare, l'intavolazione, la natura ed effetti costitutivi dei diritti reali - art. 2 R.D. 9 marzo 1929, n. 499 e succ. modif.), In particolare il comune ricorrente osservava come il T.R.G.A. avesse equivocato una disposizione del Regolamento comunale di polizia mortuaria, concernente le concessioni perpetue, assumendo, con il mero riferimento a tale disposizione regolamentare, l'assunto secondo cui la concessione doveva reputarsi perpetua (o, meglio, a tempo indeterminato).
La norma regolamentare ritenuta, dal comune ricorrente, fraintesa prevede che le concessioni presenti in una data partizione del cimitero del capoluogo siano da considerarsi quali concessioni a tempo determinato di durata eccedente a 99 anni rilasciate prima dell'entrata in vigore del D.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803, anche se siano pur state "ritenute tombe di famiglia con concessione perpetua", con la conseguenza che poteva farsi luogo all'applicazione della previsione di cui all'art. 92, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285. Tra l'altro, questa norma regolamentare era stata annullata dal T.R.G.A., considerandola contrastante con il D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.

Il Consiglio di Stato, Sez. V, con la sent. n. 842 dell'8 febbraio 2011, ha considerato come la norma regolamentare annullata desse rilevo anche ad una mera situazione di fatto di concessione perpetua delle cosiddette tombe di famiglia in relazione alla sola circostanza della loro localizzazione nel campo A, e ne autorizza come tale la tutela. In altri termini, esso stesso trasforma l'eventuale, detta situazione di mero fatto in una propriamente di diritto, così riconoscendone la sussistenza nell'ordinamento locale.
Conseguentemente, deve ritenersi, per un verso, l'attuale esistenza del diritto nascente dalla concessione perpetua e, per altro verso, che ai fini del rispettivo esercizio sui discendenti non gravasse l'onere di produrre alcun documento circa il rilascio della concessione perpetua, né tanto meno di dimostrare l'avvenuta intavolazione del corrispondente diritto reale. D'altra parte, la revoca della concessione (e la sottostante mutazione del titolo da perpetua a tempo determinato per 99 anni) per non uso ultracinquantennale presupponeva appunto che si trattasse proprio di concessione "ritenuta" perpetua.

L'assunto sostenuto dalla Sezione del Consiglio di Stato appare, da un lato auto-contraddittorio, nella parte in cui afferma che il presupposto per la dichiarazione di revoca consisterebbe nella natura perpetua (o, meglio, a tempo indeterminato) della concessione, il ché non è ammissibile, salvo che nell'ipotesi di soppressione del cimitero, tanto più che nelle argomentazioni, si considera l'esigenza della concorrenza delle diverse fattispecie (condizioni) previste all'art. 92, comma 2 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, ma si trascura l'elemento sostanziale, cioè la natura di concessioni a tempo determinato di durata eccedente i 99 anni, cioè si esclude proprio l'eventuale natura perpetua della concessione.
Dall'altro lato, appare del tutto non condivisibile l'assunto per cui rileverebbe una mera situazione di fatto, trasformando quest'ultima in una situazione di diritto. Non tanto per la considerazione che nella norma regolamentare è presente un riferimento del tutto ipotetico "… ritenute …", ipoteticità che non può assurgere a qualificazione, ma solo essere valutata quale un indicatore di incertezza, ma soprattutto perché contrasta con ogni principio dell'ordinamento giuridico per cui, quando manchi un titolo (debito) di prova della sussistenza di un diritto, che richieda un titolo per essere esercitato, solo una sentenza, o comunque un provvedimento giurisdizionale, può accertare l'esistenza del diritto vantato, principio che non è desumibile unicamente dai c.d. principi generali del diritto, ma trova conforto, positivo, nell'art. 2907 C.C.. Per inciso, tale principio trova fonte anche nel sistema dei libri fondiari, in quanto, espressamente, previsto dall'art. 5 della legge generale 25 luglio 1871, B.L.I., n. 95 "Novo testo della legge generale sui libri fondiari" (fonte normativa propria dell'Impero austro-ungarico), conservata in vigore ex art. 2 R.D. 4 novembre 1928, n. 2325).
In alcune situazioni, le situazioni di fatto possono anche far sorgere, a volte con il tempo, diritti: si pensi, a titolo esemplificativo, all'istituto, nel contesto dei modi di acquisto della proprietà, dell'usucapione (artt. 1158 e ss. C.C.), ma esso richiede pur sempre l'accertamento - giudiziale - delle condizioni e dei presupposti, ipotesi che, nell'ambito territoriale interessato è, ancora una volta espressamente, prevista dall'art. 5 R.D. 28 marzo 1929, n. 499 e succ. modif. pur se, non tutte le disposizioni in materia di usucapione siano applicabili nei territori in cui viga il sistema tavolare (es.: non trova applicazione l'art. 1159 C.C.). Per inciso, nell'eventualità di un acquisto per successione (tanto ereditaria che legatizia), tale acquisto non determina effetti se non sia stato iscritto tale trasferimento.
Non rileva, più di tanto, l'aspetto relativo alla peculiarità del sistema tavolare, che riguarda il diritto di proprietà o diritti reali su beni immobili, non potendosi trascurare come i diritti d'uso delle aree cimiteriali attengono ad aree che, in quanto assoggettate al regime dei beni demaniali, hanno natura inalienabile e possono essere oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle specifiche leggi che li riguardano (1). L'esigenza di un "titolo" attestante la sussistenza del diritto (incluse le sue caratteristiche, quali l'oggetto, la durata, la funzione), risulta anche dall'art. 98 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 (così come nei Regolamenti ad esso precedenti), nell'ipotesi di soppressione del cimitero, che costituisce la sola in cui una concessione perpetua possa essere in qualche modo intaccata, attraverso una ri-assegnazione, nel nuovo cimitero, di un'area, corrispondente in superficie (importante l'aspetto meramente superficiario), questa volta a tempo determinato, purché vi sia "regolare atto di concessione", il ché esclude che possano in alcun caso essere oggetto di apprezzamento situazioni di fatto, prive di titolo.

Prescindendo dall'aspetto della durata - a tempo indeterminato (perpetua) o a tempo determinato - il diritto d'uso di aree cimiteriali può anche essere riconosciuto quale diritto reale, solo che esso non ha riguardo ad un bene patrimoniale, quanto ad un bene comunale, nel senso di riferito alla comunità locale (di cui il comune è esponente ed ente di rappresentanza), con la conseguenza che i "terzi" che ne possono essere destinatari vengono ad avere un uso particolare, privato (termini che non si utilizzano, qui, casualmente) di beni della collettività delle persone (e non un uso di un bene del patrimonio del comune, ipotesi che poco muterebbe rispetto ad ordinari rapporti di diritto privato). Il fatto che si assuma che una situazione di fatto si trasformi in una situazione "propriamente di diritto", comporterebbe che venisse vulnerata la natura demaniale delle aree cimiteriali, le quali, in quanto inalienabili, non possono essere oggetto neppure di usucapione, cioè dell'acquisizione derivante da fatti, quali il possesso continuato e la sua durata. Se ciò, accademicamente, avvenisse, si determinerebbe l'insostenibile esito per cui soggetti singoli "esproprierebbero", per così dire, l'intera collettività, comunità locale di un bene comune e proprio della stessa, il ché comporterebbe il venire meno della natura del cimitero.
Non merita, qui, entrare nel merito della presenza di una situazione di abbandono, la quale avrebbe potuto determinare, previa diffida ad adempiere, un provvedimento di decadenza (ben diverso da quello di revoca), in quanto estraneo alla decisione.

Per altro, un cenno andrebbe formulato attorno al fatto che, all'epoca della prima inumazione (1888), i servizi cimiteriali non fossero di pertinenza dei comuni, bensì delle parrocchie, con la conseguenza che erano queste a provvedere ai luoghi di sepoltura e, se del caso, a quelle che, oggi, denominiamo quali "concessioni di aree", generalmente non solo con la corresponsione di una tariffa, ma con il - previo - assolvimento di obbligazioni "sociali", a favore o della comunità parrocchiale o delle fasce deboli della popolazione (es.: con donazioni dell'area destinata al cimitero, con l'esecuzione di opere di abbellimento del cimitero, con elargizioni alle opere parrocchiali oppure agli orfani, ospizi, poveri, ecc.). In altre parole, il "sepolcro privato" era subordinato, condizionato ad una meritevolezza soggettiva, acquisita nei riguardi della comunità locale, parrocchiale, meritevolezza che giustificava, motivata il trattamento particolare dell'uso di un sepolcro privato. Oltretutto, per quanto noto (ma sono in corso approfondimenti), sembrerebbe che le concessioni effettuate dalla parrocchie non avessero pressoché mai natura perpetua, bensì a tempo determinato.

In tutto il sistema cimiteriale, l'esigenza della sussistenza di un "titolo" diventa imprescindibile e non può essere desunta, derivata da una situazione di mero fatto.

Sulla questione della natura demaniale delle aree cimiteriali e, sull'esigenza di un "titolo" probatoria della sussistenza dei diritti relativi ad aree cimiteriali, vi veda, ad esempio, T.A.R. Basilicata, Sez. 1^, sent. n. 531 del 26 luglio 2010:
"… Quanto al merito dei rilievi contenuti nella censura di violazione di legge e di eccesso di potere per difetto di motivazione, devesi osservare che dal combinato disposto degli artt. 822 e 824 C.C. si ricava che i cimiteri appartengono alla categoria dei beni demaniali, sicché la concessione da parte del Comune di aree o porzioni di edificio non può che configurarsi come concessione amministrativa di beni soggetti al demanio, indipendentemente dall'eventuale irrevocabilità o perpetuità del diritto al sepolcro. Quest'ultimo, invero, pur configurandosi come diritto soggettivo perfetto (diritto ad essere seppellito o di seppellire altri in un dato sepolcro) nasce, si modifica e si estingue in correlazione ai presupposti provvedimenti di concessione delle aree in uso temporaneo.
Ne consegue che una concessione di suolo pubblico anche con eventuale clausola di " perpetuità" non potendo dar luogo ad un atto traslativo della proprietà del bene della Pubblica Amministrazione al soggetto privato, può logicamente essere revocata quando il sopravvenire di ragioni di interesse pubblico prevalenti lo richiedano.
In altri termini, l'assoggettamento dei cimiteri comunali al regime delle aree appartenenti al demanio pubblico, determina che la concessione di aree o porzioni di un cimitero pubblico rimane disciplinata da tali regole demaniali, indipendentemente dall'eventuale " perpetuità) del diritto al sepolcro, il che legittima la revoca dell'atto concessorio rilasciato " sine die".
A parte la circostanza che quanto sopra riferito rende superflua l'indagine sulla affermata " perpetuità" delle concessioni a suo tempo rilasciate dal Comune di … devesi poi convenire che la documentazione offerta dal ricorrente non è idonea a costituire valido elemento di prova trattandosi o di copie prodotte in forma non autenticata e destinate solo " all'uso familiare " o di documenti che si riferiscono a situazioni e persone estranee al presente giudizio e che comunque non offrono sicuri elementi a comprova del carattere di " perpetuità" delle concessioni. …"


Oppure, anche, in particolare per quanto riguardi l'opponibilità a terzi dei diritti derivanti dalla concessione cimiteriale, opponibilità che non può prescindere da un "titolo", costituito da quel "regolare atto di concessione" che costituisce la fonte del diritto reale, si veda il Consiglio Stato, Sez. V^, sent. n. 3607 del 7 ottobre 2002:
"… 12. La giurisprudenza richiamata dal tribunale non suffraga affatto la tesi della cedibilità delle facoltà inerenti al ius sepulchri.
Infatti, secondo Cass., 25 maggio 1983, n. 3607, nel nostro ordinamento il diritto di sepolcro si fonda su una concessione da parte dell'autorità amministrativa di un'area di terreno o di una porzione di edificio in un cimitero pubblico di carattere demaniale in forza dell'art. 824 c.c. e tale concessione, in quanto si riferisce all'uso specifico cui l'area stessa è permanentemente destinata, crea, a sua volta, nel privato concessionario un diritto soggettivo perfetto di natura reale, nei confronti degli altri privati come tale alienabile, prescrivibile ed espropriabile, salvo le particolari limitazioni che siano previste dai regolamenti comunali, in base ai quali la concessione è stata fatta, o di essi modificativi; siffatto diritto di natura reale (superficie), iure privato è tutelabile con esperimento dinanzi alla autorità giudiziaria ordinaria di ogni azione che il particolare caso richieda, ivi compresa la revindica; iure publico è destinato ad affievolirsi nei confronti della p.a. concedente e a degradare in diritto condizionato od affievolito, qualora lo richiedano esigenze di pubblico interesse per la tutela dell'ordine e del buon governo del cimitero; pertanto la domanda del terzo che revindica il diritto di sepolcro nei confronti dell'originario concessionario non può essere accolta in mancanza dell'apposita concessione che costituisce la fonte del diritto reale preteso senza che l'occupazione dell'area (ove abusiva) sia idonea a fondare alcun diritto, trattandosi di bene soggetto al regime del demanio pubblico. …"


Anche, laddove si facesse, eventualmente, riferimento all'istituto dell' "immemoriale", spesso poco noto, non si potrebbe prescindere dal tenere presente come esso richieda, per definizione stessa dell'istituto, un accertamento giudiziale delle condizioni che ne sono presupposto (non rilevando poi molto le distinzioni, dottrinarie, se esso abbia natura di usucapione acquisitiva o acquisizione prescrittiva), con la conseguenza che tale accertamento giudiziale, concretizzantesi in una sentenza, faccia sì che tale sentenza divenga il "titolo", con la conseguenza di riconfermare, anche in questa ipotesi, la necessità che si abbia la presenza di un "titolo", sia esso il regolare atto di concessione, oppure la sentenza che, in difetto, tenga luogo al primo (o che, nel sistema dei libri fondiari, costituisca titolo per la conseguente iscrizione del diritto in questi (ammesso che in essi debbano trovare iscrizione anche i diritti reali su beni demaniali, cioè della comunità locale)). Sotto questo profilo, altrettanto non condivisibile, è l'assunto secondo il quale i sedicenti aventi diritto non sarebbero neppure stati gravati dell'onere di produrre alcun documento circa il rilascio della concessione (ammesso che sia stata perpetua, cosa della quale può, legittimamente, dubitarsi), né di dimostrare l'avvenuta intavolazione del diritto reale (se oggetto d'intavolazione).

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(1) Art. 823, comma 1 C.C., e, esattamente nel medesimo senso, il § (il paragrafo corrispondeva all'articolo) 290, secondo periodo, del C.C. universale austriaco dato a Vienna il 1° giugno 1811, nonché art. 432, comma 2 C.C. (italiano) 1865.