TAR Veneto, Sez. II, 4 febbraio 2020, n. 128
MASSIMA
TAR Veneto, Sez. II, 4 febbraio 2020, n. 128
TAR Veneto, Sez. II, 4 febbraio 2020, n. 128
In presenza di una decisione pregiudiziale emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, il giudice nazionale è tenuto a tenerne conto, stante il suo carattere vincolante. L’eventuale rifiuto, da parte di una giurisdizione nazionale, di adeguamento ad una sentenza della Corte, può implicare l’apertura di una procedura di infrazione e la presentazione da parte della Commissione del ricorso di inadempimento di cui all’art. 258 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
La giurisprudenza amministrativa si è da tempo assestata nel riconoscere che il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza diretta dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, essendo necessaria una positiva verifica della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, nonché del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, e della sussistenza della colpa dell’Amministrazione (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 22 ottobre 2019, n. 7192). Come è stato osservato in giurisprudenza, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione e, con specifico riferimento all’elemento psicologico, la colpa della pubblica amministrazione è stata individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l’amministrazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500; id. 15 maggio 2018, n. 2882; id. 30 luglio 2013, n. 4020). Sulla base di tali premesse, è stato affermato che la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduca al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex pluribus, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23; Consiglio di Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337).
La giurisprudenza amministrativa si è da tempo assestata nel riconoscere che il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza diretta dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, essendo necessaria una positiva verifica della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, nonché del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, e della sussistenza della colpa dell’Amministrazione (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 22 ottobre 2019, n. 7192). Come è stato osservato in giurisprudenza, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione e, con specifico riferimento all’elemento psicologico, la colpa della pubblica amministrazione è stata individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l’amministrazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500; id. 15 maggio 2018, n. 2882; id. 30 luglio 2013, n. 4020). Sulla base di tali premesse, è stato affermato che la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduca al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex pluribus, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23; Consiglio di Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337).
NORME CORRELATE
Pubblicato il 04/02/2020
N. 00128/2020 REG.PROV.COLL.
N. 00259/2016 REG.RIC.
N. 00128/2020 REG.PROV.COLL.
N. 00259/2016 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 259 del 2016, proposto da
< omissis > S.r.l. e Antonia D., rappresentati e difesi dagli avvocati Paolo Piva, Giacomo Martini, Anna Soatto e Andrea Sitzia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Venezia Mestre, via Adamello, 17;
contro
Comune di Padova, in persona del legale Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Bernardi, Marina Lotto, Vincenzo Mizzoni e Paola Munari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Antonio Sartori in Venezia, San Polo, 2988;
e con l’intervento di
ad opponendum:
Alessandra C., rappresentata e difesa dall’avvocato Chiara Cacciavillani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Stra’, piazza Marconi, 51;
per l’annullamento
della delibera del Consiglio Comunale di Padova n. 2015/0084, approvata nella seduta del 30/11/2015 e pubblicata nell’Albo Pretorio dal 4/12/2015 al 18/12/2015, avente ad oggetto la modifica del Regolamento comunale dei servizi cimiteriali nella parte in cui sostituisce l’art. 52 del Regolamento di disciplina l’affidamento di urne cinerarie per la conservazione in abitazione e, in particolare, nelle parti costituite della nuova formulazione dei commi 2, 3, 4, 10 e 11 della citata disposizione regolamentare, con domanda di risarcimento dei danni patiti dalla Società < omissis > Srl.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Padova;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il dott. Stefano Mielli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
La Società ricorrente è stata costituita per realizzare nel territorio del Comune di Padova, su compenso economico, un nuovo servizio per i cittadini consistente nella custodia e conservazione delle ceneri dei defunti presso delle sedi dislocate in contesti residenziali in ambito urbano.
La ricorrente espone di aver ritenuto esservi una domanda sul mercato in tal senso perché da un lato vi è una crescente diffusione della pratica della cremazione, dall’altro è frequente che la presenza dell’urna cineraria in ambito domestico ostacoli fortemente l’elaborazione del lutto, con conseguente rinuncia alla detenzione dell’urna in abitazione e trasferimento della stessa in cimitero, opzione quest’ultima che può risultare disagevole per quanti abbiano difficoltà ad accedere ai cimiteri cittadini.
Le problematiche concernenti la difficoltà di accesso ai cimiteri, secondo le valutazioni della Società, sarebbero eliminate dalla realizzazione e gestione di dimore private destinate ad ospitare esclusivamente urne cinerarie, accessibili soltanto ai familiari affidatari delle ceneri custodite.
La ricorrente prosegue affermando di aver ricevuto inizialmente dei riscontri positivi circa la possibilità di avviare tale attività economica sia da dirigenti che da amministratori del Comune, e di aver inaugurato cinque di questi esercizi denominati “Luoghi della < omissis >” dislocati in diversi quartieri della città.
Il Comune, a fronte della contrarietà manifestata da una parte della popolazione e dai titolari di esercizi commerciali residenti nelle zone di insediamento delle dimore cinerarie, ha assunto delle iniziative volte ad arrestare l’esercizio e l’apertura di queste attività economiche.
Con nota prot. n. 270498 del 14 ottobre 2015, il Comune ha comunicato alla ricorrente che l’art. 52 del regolamento comunale dei servizi cimiteriali consente la conservazione delle urne cinerarie in ambiti extra cimiteriali “unicamente presso l’abitazione dell’affidatario”, con la precisazione che non sarebbero state accolte eventuali richieste avanzate dagli aventi diritto di conservare le urne in locali commerciali, i quali, avendo una destinazione cimiteriale, dovevano altresì ritenersi non compatibili con una destinazione di tipo residenziale.
La Società ricorrente ha replicato a tali rilievi con una nota con la quale ha sostenuto che l’art. 52 del regolamento del Comune non impedisce esplicitamente l’avvio e l’esercizio di tale attività.
Il Comune con nota prot. n. 295633 del 7 novembre 2015, ha negato la traslazione di un’urna cineraria richiesta da un privato, e con nota prot. n. 297288 del 10 novembre 2015, ha diffidato la ricorrente di dare seguito all’attività non conforme alla normativa vigente.
Infine il Comune, con deliberazione consiliare n. 84 del 30 novembre 2015, ha modificato l’art. 52 del regolamento comunale dei servizi cimiteriali, prevedendo in modo espresso che “non è in nessun caso consentito all’affidatario demandare a terzi la conservazione dell’urna cineraria. Tale divieto vale anche in caso di espressa volontà manifestata in vita dal defunto” e che “è fatto obbligo di conservare l’urna esclusivamente presso l’abitazione dell’affidatario”.
Inoltre è stato previsto che “in nessun caso la conservazione di urne cinerarie può avere finalità lucrative, e pertanto non sono ammesse attività economiche che abbiano ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale” e che “l’accertata inottemperanza alle disposizioni e prescrizioni relative alle modalità di conservazione, comporterà l’obbligo di riconsegna al servizio cimiteriale dell’urna cineraria per la ricollocazione in ambito cimiteriale oltre all’applicazione delle sanzioni previste dalla legge”.
Con il ricorso in epigrafe la deliberazione consiliare n. 84 del 30 novembre 2015, nella parte in cui modifica o sostituisce l’art. 52 del regolamento impedendo l’attività economica della ricorrente, è impugnata, con domanda di risarcimento dei danni subiti, dalla Società < omissis > Srl e da una cittadina che intende avvalersi dei servizi offerti dalla Società, per le seguenti censure:
I) violazione dell’art. 2 della Costituzione, dell’art. 343, comma 2, del RD 27 luglio 1934, n. 1265, dell’art. 3, comma 1, lett. e), della legge 30 marzo 2001, n. 130, degli artt. 3 e 49 della legge regionale 4 marzo 2010, n. 18, perché il regolamento comunale, così come modificato, viola le norme di carattere costituzionale e di carattere primario che tutelano lo ius eligendi sepulchrum che è un diritto personalissimo garantito da riserva di legge, e in base alla predetta normativa non emerge esplicitamente il divieto di svolgimento di attività imprenditoriale avente ad oggetto la custodia delle urne per conto degli affidatari, e i luoghi dove la ricorrente intende conservare le urne non possono essere definiti come cimiteri, in quanto luoghi di conservazione delle sole urne cinerarie; le uniche limitazioni riguardano la “stabile destinazione dei locali”, la necessità di adeguata garanzia “contro ogni profanazione” delle urne (ai sensi del citato art. 343 del RD n. 1265 del 1943), la previsione che i Comuni fissino “le prescrizioni relative all’affidamento e alle caratteristiche delle urne cinerarie” (art. 3, comma 2, lett. e, della legge regionale n. 18 del 2010) e stabiliscano “le dimensioni limite delle urne e le caratteristiche edilizie” degli edifici ove sono custodite (art. 80, comma 4, del DPR 10 settembre 1990, n. 285);
II) violazione della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Costituzione, perché viene ingiustificatamente impedita l’attività economica del ricorrente senza una norma di legge che la vieti o la sottoponga a restrizioni, fermo restando che la predetta attività, in considerazione delle esigenze dei familiari dei defunti, persegue finalità di utilità sociale;
III) sviamento perché la modifica normativa è stata assunta all’esclusivo scopo di contrastare l’iniziativa della ricorrente, per assecondare il dissenso manifestato da alcuni cittadini all’apertura delle dimore cinerarie, come dimostrano le dichiarazioni rese agli organi di stampa da alcuni amministratori;
IV) travisamento perché le modifiche normative sono state introdotte sull’erroneo presupposto che i luoghi della < omissis > costituiscano dei cimiteri privati, quando invece non hanno nessuna delle caratteristiche necessarie al riconoscimento di tale qualificazione;
V) difetto di istruttoria perché nelle premesse motivazionali al provvedimento impugnato si afferma che la necessità della nuova disciplina è stata determinata dalla nuova sensibilità da parte dei cittadini nei confronti della cremazione, quando invece il Comune si è a ciò determinato in tal senso solo per assecondare le proteste di alcuni residenti in prossimità dei luoghi adibiti all’iniziativa imprenditoriale, senza alcuna ponderazione con l’interesse di quanti vogliono accedere a questo servizio.
Quanto al risarcimento dei danni subiti, la ricorrente lamenta di aver sostenuto, a titolo di danno emergente, notevoli costi per l’acquisto dei colombari destinati alla collocazione delle urne, per la sottoscrizione dei contratti di locazione dei locali, per l’arredamento dei locali, per i contratti di fornitura dei servizi di luce, acqua, gas e vigilanza privata, per la campagna pubblicitaria, nonché per i costi conseguenti al decreto ingiuntivo dell’Istituto bancario che ha disposto il rientro delle somme erogate per il mutuo, nonché i mancati guadagni a titolo di lucro cessante, ed inoltre i danni derivanti dalla perdita dell’effetto sorpresa sul mercato e i danni all’immagine e reputazione commerciale per una somma complessiva, di tutti i danni subiti, di 551.142,43, di cui euro 201.142,43 a titolo di ristoro del danno emergente, euro 200.000 ,00 a titolo di ristoro del lucro cessante, euro 100.000,00 a titolo di ristoro del danno da sviamento della clientela/perdita di chance ed euro 50.000,00 a titolo di ristoro
del danno all’immagine e alla reputazione commerciale.
La Società chiede altresì che venga ordinata, ai sensi dell’art. art. 90 cod. proc. amm., la pubblicità della sentenza a cura e spese dell’Amministrazione resistente.
Si è costituito in giudizio il Comune di Padova replicando puntualmente alle censure proposte sostenendo che le modifiche regolamentari hanno in realtà reso esplicito un divieto di svolgere un’attività, come quella intrapresa dalla Società ricorrente, già presente nell’ordinamento, e concludendo pertanto per la reiezione del ricorso.
E’ anche intervenuta ad opponendum una cittadina residente nelle immediate vicinanze di uno dei siti in cui deve svolgere la propria attività la ricorrente, chiedendo anch’essa la reiezione del ricorso.
Con ordinanza cautelare n. 143 del 17 marzo 2016, è stata respinta la domanda cautelare, non potendosi escludere, ad una prima delibazione, che la deliberazione consiliare fosse attuativa delle previsioni normative di rango primario.
Alla pubblica udienza dell’11 maggio 2017, con ordinanza n. 543 del 31 maggio 2017, è stato disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea sul rilievo che in alcuni degli Stati membri un’attività commerciale come quella svolta dalla ricorrente è consentita, che tale attività sembra essere compresa nella nozione di servizi che possono essere liberamente prestati nel territorio dell’Unione Europea, cui fa riferimento l’articolo 57 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, e che pertanto è necessario che la Corte chiarisca se gli articoli 49 e 56 del trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea devono essere interpretati nel senso che ostano all’applicazione delle seguenti disposizioni dell’art. 52 del regolamento dei servizi cimiteriali del Comune di Padova:
“Non è in nessun caso consentito all’affidatario demandare a terzi la conservazione dell’urna cineraria. Tale divieto vale anche in caso di volontà espressa manifestata in vita dal defunto (comma terzo).
È fatto obbligo di conservare l’urna esclusivamente presso l’abitazione dell’affidatario (comma quarto)…
In nessun caso la conservazione di urne cinerarie può avere finalità lucrative e pertanto non sono ammesse attività economiche che abbiano ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale. Tale divieto vale anche in caso di espressa volontà manifestata in vita dal defunto (comma decimo)”.
La Corte di Giustizia con sentenza Sez. III, 14 novembre 2018, resa in causa C-342/17, ha osservato:
– che la normativa applicabile nel Comune di Padova produce l’effetto di conferire ai servizi comunali un monopolio sulla fornitura del servizio di conservazione delle urne;
– che una normativa nazionale che vieta ai cittadini dell’Unione di fornire un servizio di conservazione di urne cinerarie in uno Stato membro istituisce una restrizione alla libertà di stabilimento, ai sensi dell’articolo 49 TFUE;
– che tale restrizione non è giustificata dalle ragioni imperative di interesse generale addotte dal Governo italiano e attinenti alla tutela della salute, alla necessità di garantire il rispetto dovuto alla < omissis > dei defunti e alla tutela dei valori morali e religiosi prevalenti in Italia, i quali ostano all’esistenza di attività commerciali connesse alla conservazione delle ceneri dei defunti e, quindi, a che le attività di custodia dei resti mortali perseguano una finalità lucrativa;
– che, per quanto riguarda la tutela della salute, le ceneri funerarie, diversamente dalle spoglie mortali, sono inerti dal punto di vista biologico, in quanto rese sterili dal C., sicché la loro conservazione non può rappresentare un vincolo imposto da considerazioni sanitarie;
– che, per quanto attiene alla tutela del rispetto della < omissis > dei defunti, la normativa nazionale in questione si spinge oltre quanto necessario per conseguire tale obiettivo, in quanto esistono misure meno restrittive che consentono di conseguire altrettanto bene un obiettivo del genere, quali, in particolare, l’obbligo di provvedere alla conservazione delle urne cinerarie in condizioni analoghe a quelle dei cimiteri comunali e, in caso di cessazione dell’attività, di trasferire tali urne in un cimitero pubblico o di restituirle ai parenti del defunto;
– che, per quel che riguarda i valori morali e religiosi prevalenti in Italia (che osterebbero ad una finalità lucrativa delle attività di conservazione di resti mortali), l’attività di conservazione di ceneri mortuarie è assoggettata al pagamento di una tariffa stabilita dalla pubblica autorità e pertanto l’apertura di tale genere di attività alle imprese private potrebbe essere assoggettata al medesimo inquadramento tariffario, che, di per sé, l’Italia evidentemente non considera contrario ai propri valori morali e religiosi.
Ciò premesso, al Collegio non resta che prendere atto di tale pronuncia in quanto, come è noto, la decisione pregiudiziale ha portata vincolante per il Giudice remittente (cfr.CGU, 5 ottobre 2010, resa in Causa causa C-173/09, Elchinov e 15 gennaio 2013, resa in Causa C-416/10, Križan), e vincola anche le giurisdizioni di grado superiore chiamate a pronunciarsi sulla medesima causa.
L’eventuale rifiuto, da parte di una giurisdizione nazionale, di adeguamento ad una sentenza della Corte, può implicare l’apertura di una procedura di infrazione e la presentazione da parte della Commissione del ricorso di inadempimento di cui all’art. 258 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Ciò premesso, il ricorso deve essere accolto per quella parte di censure contenute nell’ambito del primo e del secondo motivo con le quali la Società ricorrente lamenta l’illegittimo divieto di svolgimento dell’attività di conservazione delle urne cinerarie su compenso economico.
Quanto alla domanda di risarcimento il Collegio osserva quanto segue.
La giurisprudenza amministrativa si è da tempo assestata nel riconoscere che il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza diretta dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, essendo necessaria una positiva verifica della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, nonché del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, e della sussistenza della colpa dell’Amministrazione (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 22 ottobre 2019, n. 7192).
Nel caso di specie, in cui sono senz’altro riscontrabili gli elementi concernenti la lesione della situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento e del nesso causale tra l’atto annullato e il danno subito, deve invece escludersi la sussistenza dell’elemento soggettivo.
Infatti, come è stato osservato in giurisprudenza, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione.
Con specifico riferimento all’elemento psicologico, la colpa della pubblica amministrazione è stata individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l’amministrazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500; id. 15 maggio 2018, n. 2882; id. 30 luglio 2013, n. 4020).
Sulla base di tali premesse, è stato affermato che la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduca al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex pluribus, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23; Consiglio di Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337).
Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, in altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità.
Infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione può essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1683; id. 28 luglio 2015, n. 3707).
A tale riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha tipizzato alcune situazioni la cui ricorrenza può indurre a ritenere che l’emanazione dell’atto illegittimo sia stata determinata da un errore scusabile, individuandole, oltre che nell’esistenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, o nei casi in cui si tratti di interpretare una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, o nei casi in cui vi sia una rilevante complessità del fatto, anche nell’ipotesi in cui l’illegittimità del provvedimento derivi da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Nel caso in esame l’illegittimità del provvedimento impugnato deriva dall’attività interpretativa della portata della norma di cui all’articolo 49 TFUE, rispetto all’attività lucrativa di conservazione delle urne cinerarie, compiuta dalla Corte di Giustizia Europea, del tutto assimilabile alla fattispecie in cui l’illegittimità del provvedimento derivi da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Infatti non trova riscontri l’assunto della Società ricorrente secondo cui il Comune di Padova avrebbe introdotto ex novo delle condizioni e dei limiti per l’esercizio dell’attività economica di custodia delle urne cinerarie prima inesistenti nell’ordinamento.
E’ vero che un divieto in tal senso non è espressamente affermato dall’ordinamento.
Tuttavia un tale divieto era comunque ricavabile implicitamente da una serie di disposizioni di rango primario, prese in considerazione dalla stessa Corte di Giustizia per giungere alla conclusione che la normativa nazionale comporta una restrizione alla libertà di stabilimento, nella parte in cui non consente ai cittadini dell’Unione di fornire un servizio di conservazione delle urne cinerarie, incompatibile con il Trattato.
Infatti l’art. 3 della legge del 30 marzo 2001, n. 130, recante disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri (GURI n. 91, del 19 aprile 2001), ha dettato i principi per la modifica del DPR 10 settembre 1990, n. 285, avente ad oggetto il regolamento di polizia mortuaria, disponendo che:
(…)
b) l’autorizzazione alla cremazione è concessa nel rispetto della volontà espressa dal defunto o dai suoi familiari attraverso una delle seguenti modalità:
(…)
c) la dispersione delle ceneri è consentita, nel rispetto della volontà del defunto, unicamente in aree a ciò appositamente destinate all’interno dei cimiteri o in natura o in aree private; la dispersione in aree private deve avvenire all’aperto e con il consenso dei proprietari, e non può comunque dare luogo ad attività aventi fini di lucro; la dispersione delle ceneri è in ogni caso vietata nei centri abitati (…); la dispersione in mare, nei laghi e nei fiumi è consentita nei tratti liberi da natanti e da manufatti;
d) la dispersione delle ceneri è eseguita dal coniuge o da altro familiare avente diritto, dall’esecutore testamentario o dal rappresentante legale dell’associazione di cui alla lettera b), numero 2), cui il defunto risultava iscritto o, in mancanza, dal personale autorizzato dal comune;
(…)
f) il trasporto delle urne contenenti le ceneri non è soggetto alle misure precauzionali igieniche previste per il trasporto delle salme, salvo diversa indicazione dell’autorità sanitaria;
(…)
i) predisposizione di sale attigue ai crematori per consentire il rispetto dei riti di commemorazione del defunto e un dignitoso commiato.
(…)».
L’art. 92, comma 4, del DPR 10 settembre 1990, n. 285, dispone che «non può essere fatta concessione di aree per sepolture private a persone o ad enti che mirino a farne oggetto di lucro o di speculazione».
L’art. 3 della legge regionale 4 marzo 2010, n. 18, affida ai Comuni il compito di emanare le prescrizioni sulla conservazione e sulle caratteristiche delle urne cinerarie, e l’art. 50, comma 4, dispone che “la dispersione in aree private deve avvenire all’aperto, con il consenso dei proprietari, e non può dare luogo ad attività aventi fini di lucro”.
In tale contesto normativo, in cui è contemplata la sola ipotesi dell’affidamento delle urne ai familiari quale unica alternativa alla custodia cimiteriale, e in cui vigeva il divieto a che le attività di conservazione di resti mortali potessero perseguire un fine di lucro, in modo non illogico il Comune di Padova, a fronte di un’inedita attività commerciale di fornitura del servizio di conservazione di urne cinerarie, ha ritenuto di rendere esplicito nel proprio regolamento il divieto allo svolgimento di tale attività implicitamente contrastante con i citati principi legislativi.
Peraltro nella fattispecie in esame, la tipologia di attività che la Società ricorrente intende svolgere, si è posta in termini di assoluta novità anche rispetto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Infatti nella sentenza non vengono citati dei precedenti sulla questione, e le stesse conclusioni dell’Avvocato generale si ponevano in termini meno perentori circa la possibilità, per uno Stato membro, di vietare un tale tipo di attività, laddove affermano che “tale divieto potrebbe, tuttavia, essere giustificato da ragioni di ordine pubblico nazionale, corrispondenti alla tutela di interessi o valori culturali o morali essenziali e ampiamente condivisi nello Stato membro in questione, qualora fosse imprescindibile per rispettarli e non sussistesse alcuna possibilità di ricorrere ad altre misure meno restrittive aventi la medesima finalità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
Tali conclusioni, come sopra visto, sono state invece disattese dalla sentenza che ha affermato tout court l’incompatibilità con la normativa comunitaria di un tale divieto previsto dalla normativa nazionale.
Orbene, in tale contesto in cui il regolamento impugnato ha dato attuazione ai principi normativi ricavabili dalla legislazione nazionale, e in cui si è anche registrata un’obiettiva incertezza negli stessi orientamenti del giudice comunitario circa l’incompatibilità o meno di un divieto posto a livello nazionale con l’art. 49 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, il Collegio ritiene che non ricorrano i requisiti per poter affermare che il danno patito dalla ricorrente sia imputabile ad una condotta colposa del Comune.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto con riguardo alla domanda di carattere impugnatorio con conseguente annullamento dell’atto in epigrafe indicato ed affermazione del principio che deve ritenersi illegittimo un divieto che proibisca ogni attività esercitata con finalità lucrative avente ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale, mentre deve essere respinto con riguardo alla domanda risarcitoria per difetto dell’elemento soggettivo in capo all’Amministrazione.
Le spese di giudizio seguono il principio della soccombenza in favore della parte ricorrente e sono liquidate, tenendo conto anche della fase di giudizio svoltasi avanti la Corte di giustizia, nella misura indicata nel dispositivo, mentre possono essere compensate nei confronti dell’interveniente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, lo accoglie sotto il profilo impugnatorio e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato in epigrafe indicato nel senso precisato in motivazione, e lo respinge con riguardo alla domanda risarcitoria.
Condanna il Comune di Padova alla rifusione delle spese di giudizio in favore della parte ricorrente liquidandole nella somma di € 13.000,00 a titolo di competenze e spese oltre ad iva e cpa, e le compensa nei confronti dell’interveniente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Alberto Pasi, Presidente
Stefano Mielli, Consigliere, Estensore
Daria Valletta, Referendario
L’ESTENSORE (Stefano Mielli)
IL PRESIDENTE (Alberto Pasi)
IL SEGRETARIO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 259 del 2016, proposto da
< omissis > S.r.l. e Antonia D., rappresentati e difesi dagli avvocati Paolo Piva, Giacomo Martini, Anna Soatto e Andrea Sitzia, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Venezia Mestre, via Adamello, 17;
contro
Comune di Padova, in persona del legale Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Bernardi, Marina Lotto, Vincenzo Mizzoni e Paola Munari, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Antonio Sartori in Venezia, San Polo, 2988;
e con l’intervento di
ad opponendum:
Alessandra C., rappresentata e difesa dall’avvocato Chiara Cacciavillani, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Stra’, piazza Marconi, 51;
per l’annullamento
della delibera del Consiglio Comunale di Padova n. 2015/0084, approvata nella seduta del 30/11/2015 e pubblicata nell’Albo Pretorio dal 4/12/2015 al 18/12/2015, avente ad oggetto la modifica del Regolamento comunale dei servizi cimiteriali nella parte in cui sostituisce l’art. 52 del Regolamento di disciplina l’affidamento di urne cinerarie per la conservazione in abitazione e, in particolare, nelle parti costituite della nuova formulazione dei commi 2, 3, 4, 10 e 11 della citata disposizione regolamentare, con domanda di risarcimento dei danni patiti dalla Società < omissis > Srl.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Padova;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 novembre 2019 il dott. Stefano Mielli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
La Società ricorrente è stata costituita per realizzare nel territorio del Comune di Padova, su compenso economico, un nuovo servizio per i cittadini consistente nella custodia e conservazione delle ceneri dei defunti presso delle sedi dislocate in contesti residenziali in ambito urbano.
La ricorrente espone di aver ritenuto esservi una domanda sul mercato in tal senso perché da un lato vi è una crescente diffusione della pratica della cremazione, dall’altro è frequente che la presenza dell’urna cineraria in ambito domestico ostacoli fortemente l’elaborazione del lutto, con conseguente rinuncia alla detenzione dell’urna in abitazione e trasferimento della stessa in cimitero, opzione quest’ultima che può risultare disagevole per quanti abbiano difficoltà ad accedere ai cimiteri cittadini.
Le problematiche concernenti la difficoltà di accesso ai cimiteri, secondo le valutazioni della Società, sarebbero eliminate dalla realizzazione e gestione di dimore private destinate ad ospitare esclusivamente urne cinerarie, accessibili soltanto ai familiari affidatari delle ceneri custodite.
La ricorrente prosegue affermando di aver ricevuto inizialmente dei riscontri positivi circa la possibilità di avviare tale attività economica sia da dirigenti che da amministratori del Comune, e di aver inaugurato cinque di questi esercizi denominati “Luoghi della < omissis >” dislocati in diversi quartieri della città.
Il Comune, a fronte della contrarietà manifestata da una parte della popolazione e dai titolari di esercizi commerciali residenti nelle zone di insediamento delle dimore cinerarie, ha assunto delle iniziative volte ad arrestare l’esercizio e l’apertura di queste attività economiche.
Con nota prot. n. 270498 del 14 ottobre 2015, il Comune ha comunicato alla ricorrente che l’art. 52 del regolamento comunale dei servizi cimiteriali consente la conservazione delle urne cinerarie in ambiti extra cimiteriali “unicamente presso l’abitazione dell’affidatario”, con la precisazione che non sarebbero state accolte eventuali richieste avanzate dagli aventi diritto di conservare le urne in locali commerciali, i quali, avendo una destinazione cimiteriale, dovevano altresì ritenersi non compatibili con una destinazione di tipo residenziale.
La Società ricorrente ha replicato a tali rilievi con una nota con la quale ha sostenuto che l’art. 52 del regolamento del Comune non impedisce esplicitamente l’avvio e l’esercizio di tale attività.
Il Comune con nota prot. n. 295633 del 7 novembre 2015, ha negato la traslazione di un’urna cineraria richiesta da un privato, e con nota prot. n. 297288 del 10 novembre 2015, ha diffidato la ricorrente di dare seguito all’attività non conforme alla normativa vigente.
Infine il Comune, con deliberazione consiliare n. 84 del 30 novembre 2015, ha modificato l’art. 52 del regolamento comunale dei servizi cimiteriali, prevedendo in modo espresso che “non è in nessun caso consentito all’affidatario demandare a terzi la conservazione dell’urna cineraria. Tale divieto vale anche in caso di espressa volontà manifestata in vita dal defunto” e che “è fatto obbligo di conservare l’urna esclusivamente presso l’abitazione dell’affidatario”.
Inoltre è stato previsto che “in nessun caso la conservazione di urne cinerarie può avere finalità lucrative, e pertanto non sono ammesse attività economiche che abbiano ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale” e che “l’accertata inottemperanza alle disposizioni e prescrizioni relative alle modalità di conservazione, comporterà l’obbligo di riconsegna al servizio cimiteriale dell’urna cineraria per la ricollocazione in ambito cimiteriale oltre all’applicazione delle sanzioni previste dalla legge”.
Con il ricorso in epigrafe la deliberazione consiliare n. 84 del 30 novembre 2015, nella parte in cui modifica o sostituisce l’art. 52 del regolamento impedendo l’attività economica della ricorrente, è impugnata, con domanda di risarcimento dei danni subiti, dalla Società < omissis > Srl e da una cittadina che intende avvalersi dei servizi offerti dalla Società, per le seguenti censure:
I) violazione dell’art. 2 della Costituzione, dell’art. 343, comma 2, del RD 27 luglio 1934, n. 1265, dell’art. 3, comma 1, lett. e), della legge 30 marzo 2001, n. 130, degli artt. 3 e 49 della legge regionale 4 marzo 2010, n. 18, perché il regolamento comunale, così come modificato, viola le norme di carattere costituzionale e di carattere primario che tutelano lo ius eligendi sepulchrum che è un diritto personalissimo garantito da riserva di legge, e in base alla predetta normativa non emerge esplicitamente il divieto di svolgimento di attività imprenditoriale avente ad oggetto la custodia delle urne per conto degli affidatari, e i luoghi dove la ricorrente intende conservare le urne non possono essere definiti come cimiteri, in quanto luoghi di conservazione delle sole urne cinerarie; le uniche limitazioni riguardano la “stabile destinazione dei locali”, la necessità di adeguata garanzia “contro ogni profanazione” delle urne (ai sensi del citato art. 343 del RD n. 1265 del 1943), la previsione che i Comuni fissino “le prescrizioni relative all’affidamento e alle caratteristiche delle urne cinerarie” (art. 3, comma 2, lett. e, della legge regionale n. 18 del 2010) e stabiliscano “le dimensioni limite delle urne e le caratteristiche edilizie” degli edifici ove sono custodite (art. 80, comma 4, del DPR 10 settembre 1990, n. 285);
II) violazione della libertà di iniziativa economica sancita dall’art. 41 della Costituzione, perché viene ingiustificatamente impedita l’attività economica del ricorrente senza una norma di legge che la vieti o la sottoponga a restrizioni, fermo restando che la predetta attività, in considerazione delle esigenze dei familiari dei defunti, persegue finalità di utilità sociale;
III) sviamento perché la modifica normativa è stata assunta all’esclusivo scopo di contrastare l’iniziativa della ricorrente, per assecondare il dissenso manifestato da alcuni cittadini all’apertura delle dimore cinerarie, come dimostrano le dichiarazioni rese agli organi di stampa da alcuni amministratori;
IV) travisamento perché le modifiche normative sono state introdotte sull’erroneo presupposto che i luoghi della < omissis > costituiscano dei cimiteri privati, quando invece non hanno nessuna delle caratteristiche necessarie al riconoscimento di tale qualificazione;
V) difetto di istruttoria perché nelle premesse motivazionali al provvedimento impugnato si afferma che la necessità della nuova disciplina è stata determinata dalla nuova sensibilità da parte dei cittadini nei confronti della cremazione, quando invece il Comune si è a ciò determinato in tal senso solo per assecondare le proteste di alcuni residenti in prossimità dei luoghi adibiti all’iniziativa imprenditoriale, senza alcuna ponderazione con l’interesse di quanti vogliono accedere a questo servizio.
Quanto al risarcimento dei danni subiti, la ricorrente lamenta di aver sostenuto, a titolo di danno emergente, notevoli costi per l’acquisto dei colombari destinati alla collocazione delle urne, per la sottoscrizione dei contratti di locazione dei locali, per l’arredamento dei locali, per i contratti di fornitura dei servizi di luce, acqua, gas e vigilanza privata, per la campagna pubblicitaria, nonché per i costi conseguenti al decreto ingiuntivo dell’Istituto bancario che ha disposto il rientro delle somme erogate per il mutuo, nonché i mancati guadagni a titolo di lucro cessante, ed inoltre i danni derivanti dalla perdita dell’effetto sorpresa sul mercato e i danni all’immagine e reputazione commerciale per una somma complessiva, di tutti i danni subiti, di 551.142,43, di cui euro 201.142,43 a titolo di ristoro del danno emergente, euro 200.000 ,00 a titolo di ristoro del lucro cessante, euro 100.000,00 a titolo di ristoro del danno da sviamento della clientela/perdita di chance ed euro 50.000,00 a titolo di ristoro
del danno all’immagine e alla reputazione commerciale.
La Società chiede altresì che venga ordinata, ai sensi dell’art. art. 90 cod. proc. amm., la pubblicità della sentenza a cura e spese dell’Amministrazione resistente.
Si è costituito in giudizio il Comune di Padova replicando puntualmente alle censure proposte sostenendo che le modifiche regolamentari hanno in realtà reso esplicito un divieto di svolgere un’attività, come quella intrapresa dalla Società ricorrente, già presente nell’ordinamento, e concludendo pertanto per la reiezione del ricorso.
E’ anche intervenuta ad opponendum una cittadina residente nelle immediate vicinanze di uno dei siti in cui deve svolgere la propria attività la ricorrente, chiedendo anch’essa la reiezione del ricorso.
Con ordinanza cautelare n. 143 del 17 marzo 2016, è stata respinta la domanda cautelare, non potendosi escludere, ad una prima delibazione, che la deliberazione consiliare fosse attuativa delle previsioni normative di rango primario.
Alla pubblica udienza dell’11 maggio 2017, con ordinanza n. 543 del 31 maggio 2017, è stato disposto un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea sul rilievo che in alcuni degli Stati membri un’attività commerciale come quella svolta dalla ricorrente è consentita, che tale attività sembra essere compresa nella nozione di servizi che possono essere liberamente prestati nel territorio dell’Unione Europea, cui fa riferimento l’articolo 57 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, e che pertanto è necessario che la Corte chiarisca se gli articoli 49 e 56 del trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea devono essere interpretati nel senso che ostano all’applicazione delle seguenti disposizioni dell’art. 52 del regolamento dei servizi cimiteriali del Comune di Padova:
“Non è in nessun caso consentito all’affidatario demandare a terzi la conservazione dell’urna cineraria. Tale divieto vale anche in caso di volontà espressa manifestata in vita dal defunto (comma terzo).
È fatto obbligo di conservare l’urna esclusivamente presso l’abitazione dell’affidatario (comma quarto)…
In nessun caso la conservazione di urne cinerarie può avere finalità lucrative e pertanto non sono ammesse attività economiche che abbiano ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale. Tale divieto vale anche in caso di espressa volontà manifestata in vita dal defunto (comma decimo)”.
La Corte di Giustizia con sentenza Sez. III, 14 novembre 2018, resa in causa C-342/17, ha osservato:
– che la normativa applicabile nel Comune di Padova produce l’effetto di conferire ai servizi comunali un monopolio sulla fornitura del servizio di conservazione delle urne;
– che una normativa nazionale che vieta ai cittadini dell’Unione di fornire un servizio di conservazione di urne cinerarie in uno Stato membro istituisce una restrizione alla libertà di stabilimento, ai sensi dell’articolo 49 TFUE;
– che tale restrizione non è giustificata dalle ragioni imperative di interesse generale addotte dal Governo italiano e attinenti alla tutela della salute, alla necessità di garantire il rispetto dovuto alla < omissis > dei defunti e alla tutela dei valori morali e religiosi prevalenti in Italia, i quali ostano all’esistenza di attività commerciali connesse alla conservazione delle ceneri dei defunti e, quindi, a che le attività di custodia dei resti mortali perseguano una finalità lucrativa;
– che, per quanto riguarda la tutela della salute, le ceneri funerarie, diversamente dalle spoglie mortali, sono inerti dal punto di vista biologico, in quanto rese sterili dal C., sicché la loro conservazione non può rappresentare un vincolo imposto da considerazioni sanitarie;
– che, per quanto attiene alla tutela del rispetto della < omissis > dei defunti, la normativa nazionale in questione si spinge oltre quanto necessario per conseguire tale obiettivo, in quanto esistono misure meno restrittive che consentono di conseguire altrettanto bene un obiettivo del genere, quali, in particolare, l’obbligo di provvedere alla conservazione delle urne cinerarie in condizioni analoghe a quelle dei cimiteri comunali e, in caso di cessazione dell’attività, di trasferire tali urne in un cimitero pubblico o di restituirle ai parenti del defunto;
– che, per quel che riguarda i valori morali e religiosi prevalenti in Italia (che osterebbero ad una finalità lucrativa delle attività di conservazione di resti mortali), l’attività di conservazione di ceneri mortuarie è assoggettata al pagamento di una tariffa stabilita dalla pubblica autorità e pertanto l’apertura di tale genere di attività alle imprese private potrebbe essere assoggettata al medesimo inquadramento tariffario, che, di per sé, l’Italia evidentemente non considera contrario ai propri valori morali e religiosi.
Ciò premesso, al Collegio non resta che prendere atto di tale pronuncia in quanto, come è noto, la decisione pregiudiziale ha portata vincolante per il Giudice remittente (cfr.CGU, 5 ottobre 2010, resa in Causa causa C-173/09, Elchinov e 15 gennaio 2013, resa in Causa C-416/10, Križan), e vincola anche le giurisdizioni di grado superiore chiamate a pronunciarsi sulla medesima causa.
L’eventuale rifiuto, da parte di una giurisdizione nazionale, di adeguamento ad una sentenza della Corte, può implicare l’apertura di una procedura di infrazione e la presentazione da parte della Commissione del ricorso di inadempimento di cui all’art. 258 Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
Ciò premesso, il ricorso deve essere accolto per quella parte di censure contenute nell’ambito del primo e del secondo motivo con le quali la Società ricorrente lamenta l’illegittimo divieto di svolgimento dell’attività di conservazione delle urne cinerarie su compenso economico.
Quanto alla domanda di risarcimento il Collegio osserva quanto segue.
La giurisprudenza amministrativa si è da tempo assestata nel riconoscere che il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza diretta dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, essendo necessaria una positiva verifica della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse tutelata dall’ordinamento, nonché del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, e della sussistenza della colpa dell’Amministrazione (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 22 ottobre 2019, n. 7192).
Nel caso di specie, in cui sono senz’altro riscontrabili gli elementi concernenti la lesione della situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento e del nesso causale tra l’atto annullato e il danno subito, deve invece escludersi la sussistenza dell’elemento soggettivo.
Infatti, come è stato osservato in giurisprudenza, l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ove acclarata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, da considerare unitamente ad altri, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità degli elementi di fatto, il carattere vincolato della statuizione amministrativa, l’ambito più o meno ampio della discrezionalità dell’amministrazione.
Con specifico riferimento all’elemento psicologico, la colpa della pubblica amministrazione è stata individuata nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero in negligenza, omissioni o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili, in ragione dell’interesse giuridicamente protetto di colui che instaura un rapporto con l’amministrazione (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. III, 4 marzo 2019, n. 1500; id. 15 maggio 2018, n. 2882; id. 30 luglio 2013, n. 4020).
Sulla base di tali premesse, è stato affermato che la responsabilità deve essere negata quando l’indagine conduca al riconoscimento dell’errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex pluribus, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 gennaio 2013, n. 23; Consiglio di Stato, Sez. V, 31 luglio 2012, n. 4337).
Per la configurabilità della colpa dell’Amministrazione, in altri termini, occorre avere riguardo al carattere della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, si dovrà riconoscere la sussistenza dell’elemento psicologico nella sua violazione; al contrario, se il canone della condotta amministrativa giudicata è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all’Autorità amministrativa un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà essere accertata solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle regole di correttezza e di proporzionalità.
Infatti, a fronte di regole di condotta inidonee a costituire, di per sé, un canone di azione sicuro e vincolante, la responsabilità dell’Amministrazione può essere affermata nei soli casi in cui l’azione amministrativa abbia disatteso, in maniera macroscopica ed evidente, i criteri della buona fede e dell’imparzialità, restando ogni altra violazione assorbita nel perimetro dell’errore scusabile (cfr. ex pluribus Consiglio di Stato, Sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1683; id. 28 luglio 2015, n. 3707).
A tale riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha tipizzato alcune situazioni la cui ricorrenza può indurre a ritenere che l’emanazione dell’atto illegittimo sia stata determinata da un errore scusabile, individuandole, oltre che nell’esistenza di contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma, o nei casi in cui si tratti di interpretare una formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore, o nei casi in cui vi sia una rilevante complessità del fatto, anche nell’ipotesi in cui l’illegittimità del provvedimento derivi da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Nel caso in esame l’illegittimità del provvedimento impugnato deriva dall’attività interpretativa della portata della norma di cui all’articolo 49 TFUE, rispetto all’attività lucrativa di conservazione delle urne cinerarie, compiuta dalla Corte di Giustizia Europea, del tutto assimilabile alla fattispecie in cui l’illegittimità del provvedimento derivi da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata.
Infatti non trova riscontri l’assunto della Società ricorrente secondo cui il Comune di Padova avrebbe introdotto ex novo delle condizioni e dei limiti per l’esercizio dell’attività economica di custodia delle urne cinerarie prima inesistenti nell’ordinamento.
E’ vero che un divieto in tal senso non è espressamente affermato dall’ordinamento.
Tuttavia un tale divieto era comunque ricavabile implicitamente da una serie di disposizioni di rango primario, prese in considerazione dalla stessa Corte di Giustizia per giungere alla conclusione che la normativa nazionale comporta una restrizione alla libertà di stabilimento, nella parte in cui non consente ai cittadini dell’Unione di fornire un servizio di conservazione delle urne cinerarie, incompatibile con il Trattato.
Infatti l’art. 3 della legge del 30 marzo 2001, n. 130, recante disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri (GURI n. 91, del 19 aprile 2001), ha dettato i principi per la modifica del DPR 10 settembre 1990, n. 285, avente ad oggetto il regolamento di polizia mortuaria, disponendo che:
(…)
b) l’autorizzazione alla cremazione è concessa nel rispetto della volontà espressa dal defunto o dai suoi familiari attraverso una delle seguenti modalità:
(…)
c) la dispersione delle ceneri è consentita, nel rispetto della volontà del defunto, unicamente in aree a ciò appositamente destinate all’interno dei cimiteri o in natura o in aree private; la dispersione in aree private deve avvenire all’aperto e con il consenso dei proprietari, e non può comunque dare luogo ad attività aventi fini di lucro; la dispersione delle ceneri è in ogni caso vietata nei centri abitati (…); la dispersione in mare, nei laghi e nei fiumi è consentita nei tratti liberi da natanti e da manufatti;
d) la dispersione delle ceneri è eseguita dal coniuge o da altro familiare avente diritto, dall’esecutore testamentario o dal rappresentante legale dell’associazione di cui alla lettera b), numero 2), cui il defunto risultava iscritto o, in mancanza, dal personale autorizzato dal comune;
(…)
f) il trasporto delle urne contenenti le ceneri non è soggetto alle misure precauzionali igieniche previste per il trasporto delle salme, salvo diversa indicazione dell’autorità sanitaria;
(…)
i) predisposizione di sale attigue ai crematori per consentire il rispetto dei riti di commemorazione del defunto e un dignitoso commiato.
(…)».
L’art. 92, comma 4, del DPR 10 settembre 1990, n. 285, dispone che «non può essere fatta concessione di aree per sepolture private a persone o ad enti che mirino a farne oggetto di lucro o di speculazione».
L’art. 3 della legge regionale 4 marzo 2010, n. 18, affida ai Comuni il compito di emanare le prescrizioni sulla conservazione e sulle caratteristiche delle urne cinerarie, e l’art. 50, comma 4, dispone che “la dispersione in aree private deve avvenire all’aperto, con il consenso dei proprietari, e non può dare luogo ad attività aventi fini di lucro”.
In tale contesto normativo, in cui è contemplata la sola ipotesi dell’affidamento delle urne ai familiari quale unica alternativa alla custodia cimiteriale, e in cui vigeva il divieto a che le attività di conservazione di resti mortali potessero perseguire un fine di lucro, in modo non illogico il Comune di Padova, a fronte di un’inedita attività commerciale di fornitura del servizio di conservazione di urne cinerarie, ha ritenuto di rendere esplicito nel proprio regolamento il divieto allo svolgimento di tale attività implicitamente contrastante con i citati principi legislativi.
Peraltro nella fattispecie in esame, la tipologia di attività che la Società ricorrente intende svolgere, si è posta in termini di assoluta novità anche rispetto alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.
Infatti nella sentenza non vengono citati dei precedenti sulla questione, e le stesse conclusioni dell’Avvocato generale si ponevano in termini meno perentori circa la possibilità, per uno Stato membro, di vietare un tale tipo di attività, laddove affermano che “tale divieto potrebbe, tuttavia, essere giustificato da ragioni di ordine pubblico nazionale, corrispondenti alla tutela di interessi o valori culturali o morali essenziali e ampiamente condivisi nello Stato membro in questione, qualora fosse imprescindibile per rispettarli e non sussistesse alcuna possibilità di ricorrere ad altre misure meno restrittive aventi la medesima finalità, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare”.
Tali conclusioni, come sopra visto, sono state invece disattese dalla sentenza che ha affermato tout court l’incompatibilità con la normativa comunitaria di un tale divieto previsto dalla normativa nazionale.
Orbene, in tale contesto in cui il regolamento impugnato ha dato attuazione ai principi normativi ricavabili dalla legislazione nazionale, e in cui si è anche registrata un’obiettiva incertezza negli stessi orientamenti del giudice comunitario circa l’incompatibilità o meno di un divieto posto a livello nazionale con l’art. 49 del Trattato di funzionamento dell’Unione Europea, il Collegio ritiene che non ricorrano i requisiti per poter affermare che il danno patito dalla ricorrente sia imputabile ad una condotta colposa del Comune.
In definitiva, il ricorso deve essere accolto con riguardo alla domanda di carattere impugnatorio con conseguente annullamento dell’atto in epigrafe indicato ed affermazione del principio che deve ritenersi illegittimo un divieto che proibisca ogni attività esercitata con finalità lucrative avente ad oggetto, anche non esclusivo, la conservazione di urne cinerarie a qualsiasi titolo e per qualsiasi durata temporale, mentre deve essere respinto con riguardo alla domanda risarcitoria per difetto dell’elemento soggettivo in capo all’Amministrazione.
Le spese di giudizio seguono il principio della soccombenza in favore della parte ricorrente e sono liquidate, tenendo conto anche della fase di giudizio svoltasi avanti la Corte di giustizia, nella misura indicata nel dispositivo, mentre possono essere compensate nei confronti dell’interveniente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sul ricorso, lo accoglie sotto il profilo impugnatorio e, per l’effetto, annulla l’atto impugnato in epigrafe indicato nel senso precisato in motivazione, e lo respinge con riguardo alla domanda risarcitoria.
Condanna il Comune di Padova alla rifusione delle spese di giudizio in favore della parte ricorrente liquidandole nella somma di € 13.000,00 a titolo di competenze e spese oltre ad iva e cpa, e le compensa nei confronti dell’interveniente.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 21 novembre 2019 con l’intervento dei magistrati:
Alberto Pasi, Presidente
Stefano Mielli, Consigliere, Estensore
Daria Valletta, Referendario
L’ESTENSORE (Stefano Mielli)
IL PRESIDENTE (Alberto Pasi)
IL SEGRETARIO