Corte di Cassazione, Sez. VI pen., 10 settembre 2019, n. 37520
MASSIMA
Corte di Cassazione, Sez. VI pen., 10 settembre 2019, n. 37520
Corte di Cassazione, Sez. VI pen., 10 settembre 2019, n. 37520
Sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti coercitivi, connotati da violenza o minaccia, esplicati nell’esercizio di attività commerciali, industriali o produttive, che integrano atti di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, cod. civ., ivi compresi i comportamenti, diversi da quelli indicati ai numeri 1) e 2), specificamente volti ad alterare l’ordinario e libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato, comprese le intese restrittive della libertà di concorrenza e degli abusi di posizione dominante descritti negli artt. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990. Si tratta di comportamenti che, come ognuno può vedere, materialmente possono essere diretti anche nei confronti di persona diversa da||’imprenditore concorrente, pur se funzionali ed idonei a danneggiare quest’ultimo sul mercato: basti pensare, soltanto per fare un esempio, alla minaccia rivolta al privato utilizzatore del bene o servizio, diretta ad orientarne la scelta fra più operatori di mercato disponibili.
NORME CORRELATE
Corte di Cassazione
Penale Sent. Sez. 6 Num. 37520 Anno 2019
Presidente: TRONCI ANDREA
Relatore: ROSATI MARTINO
Data Udienza: 18/04/2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da
R. Ugo Bernardo, nato a Lamezia Terme il 25/06/1985
avverso |’ordinanza emessa il 18/12/2018 dal Tribunale di Catanzaro;
visti gii atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Martino Rosati;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Assunta Cocomello, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;
udito il difensore, avv. Renzo Andricciola del Foro di Lamezia Terme, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La difesa di Ugo Bernardo R. ricorre per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Catanzaro dei 18-19 dicembre 2018, che, in funzione di giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza emessa il 7 novembre precedente dal Giudice perle indagini preliminari di quel Tribunale, con la quale è stata a costui applicata la custodia cautelare in carcere, in relazione ai delitti di cui agli artt. 416-bis, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 8, e 513-bis, aggravato ex art. 416-bís.1, cod. pen..
2. Con un unico, articolato motivo, la difesa ricorrente deduce violazione di legge, inosservanza di norme processuali e vizi di motivazione, contestando la gravità indiziaria del compendio istruttorio valorizzato dall’impugnata ordinanza e la sussistenza di esigenze cautelari, ivi ritenuta.
Nei limiti imposti dail’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen., le doglianze difensive possono sinteticamente esporsi nei termini che seguono:
a) irrilevanza delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia, poiché generiche, non coincidenti tra loro e prive di riscontri individualizzanti; costoro non parlano dei fratelli R. (Governa, Torcasio); oppure riferiscono di non aver intrattenuto con essi contatti diretti e, quindi, espongono soltanto notizie de re/ato (Giampà, P.); od ancora (V.) narrano di fatti anteriori al novembre del 2010, termine a quo dell’imputazione provvisoria elevata all’indagato ed ai suoi congiunti nel presente procedimento; e comunque nessuno indica questi ultimi, ed ancor meno l’odierno ricorrente, come partecipi di un’associazione di tipo mafioso;
b) inesistenza, in atti, di alcun contatto diretto tra quest’ultimo ed i membri di quella consorteria criminale;
c) non concludenza indiziante delle assunzioni, presso le ditte dei fratelli
R., di dipendenti con precedenti penali e legati alle cosche di `ndrangheta confederate I.-C.-D., in quanto:
– non si comprende come la consorteria mafiosa potesse beneficiare dei guadagni delle ditte dei R.;
– emerge dalle intercettazioni che Silvio R., zio dell’indagato ed effettivo gestore, insieme al proprio fratello Pietro, delle aziende di famiglia, avesse manifestato perplessità e resistenze all’assunzione di G. Alfredo, soggetto ritenuto intraneo a quelle cosche; ed anche l’odierno ricorrente – si legge nell’informativa finale della polizia giudiziaria – sarebbe stato «<i>costretto a non opporsi</i>» a quell’assunzione;
– degli ottanta dipendenti della “R. Servizi s.a.s.”, società riconducibile all’indagato, soltanto il 2,4% annoverava pregiudizi penali;
› il cospicuo aumento di fatturato delle società dei R. nel 2015 è stato dovuto ai consistenti investimenti effettuati, e documentati al Tribunale del riesame (nuove sedi, nuovi veicoli, funeral house), e non può essere ricollegato – come invece illogicamente opina il Tribunale – all’assunz1one di soggetti in ipotesi aderenti a sodalizi mafiosi, come i dipendenti G. Alfredo (peraltro per un periodo di soli tre mesi), F. Pietro e Re. Pasquale;
– l’ordinanza custodiale, nel presente procedimento, per i predetti G. e Re. è stata annullata per carenza di gravi indizi, mentre F. non è indicato come partecipe a nessuna delle suddette cosche confederate;
d) costruzione accusatoria di un duopolio tra le ditte dei R. e quelle dei concorrenti P. soltanto congetturale: collaboranti ed intercettazioni attestano come tra le due famiglie vi fosse, da anni, una vera e propria “guerra”, con ripetuti screzi ed atti d’intimidazione; e solo i R., e non i P., in conseguenza dell’esclusione da una gara d’appalto per l’affidamento del servizio di ambulanze, avevano proposto un ricorso al T.A.R.;
e) ascrivibilità delle condotte di prevaricazione ed arroganza all’interno dell’ospedale di Lamezia Terme, descritte dagli operatori sanitari ed amministrativi dello stesso, soltanto a dipendenti dei P. e non anche dei R.; anzi, con particolare riferimento ad Ugo R., la dipendente ospedaliera S. lo ha descritto come spesso presente in ospedale, ma ha spiegato che «non ha mai fatto nulla di strano>>;
f) irrilevanza, ai fini del citato art. 513-bis, di eventuali atti arroganti o di sopraffazione nei confronti dei dipendenti dell’ospedale, poiché quella fattispecie di reato richiede la direzione di tali condotte verso imprenditori concorrenti: nessuno dei quali, invece, ha riferito di simili comportamenti; anzi, da una telefonata intercettata tra S. Tommaso, socio dei R., e V. Alfredo, imprenditore loro concorrente, risulta che quest’ultimo sarebbe stato aiutato dall’altro per l’apertura di un conto in banca;
g) inesistenza di esigenze cautelari concrete ed attuali: nessuno ha mai indicato il ricorrente come autore di condotte delittuose, sicché egli non avrebbe interesse ad avvicinare chicchessia; questi, inoltre, ha dismesso le proprie quote nelle società di famiglia da oltre un anno e, avendo conseguito la laurea in scienze infermieristiche, è stato assunto a tempo determinato presso quell’ospedale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le doglianze sull’insufficienza della motivazione, nella parte relativa alla ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il delitto associativo, sono fondate.
Gli elementi istruttori valorizzati a tal fine dal Tribunale, infatti, pur ad una lettura complessiva e coordinata, non sono tali da delineare una condotta dell’indagato sussumibile nel paradigma normativo dell’art. 416-bis, cod. pen..
1.1. Quale premessa d’ordine sistematico, può essere utile precisare che, in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di “partecipazione” è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
La partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali, dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza, attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi l’appartenenza nel senso indicato, purché si tratti di indizi gravi e precisi, quali, per esemplificare, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, la rituale affiliazione, la commissione di delitti-scopo, e qualsiasi altro comportamento concludente, purché significativo, in quanto idoneo, sotto il profilo logico, ad offrire la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazi0ne (così, Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670, costantemente ribadita dalla giurisprudenza successiva: tra le tante, Sez. 5, n. 45840 del 14/06/2018 Rv. 274180; Sez. 6, n. 12554 del 01/03/2016, Rv. 267418; Sez. 5, n. 6882 del 06/11/2015, Rv. 266064).
Non rilevano, invece, le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale, le quali, anzi, non sono sufficienti nemmeno ad integrare la diversa – e meno stringente – condizione di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa, rilevante ai fini del|’applicazione delle misure di prevenzione e che, comunque, postuia una condotta funzionale agli scopi associativi, ancorché isolata (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, Gattuso, Rv. 271512).
1.2, Finitima a quella del partecipe è la figura del c.d. “concorrente esterno” o “eventuale” al sodalizio mafioso.
Anche nell’individuazione dei tratti caratterizzanti quest’ultima, la lettura della giurisprudenza di legittimità può dirsi ormai uniforme: è tale, ossia, la persona che, pur priva della affectio societatis e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purché detto contributo abbia un`effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e I’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002, Carnevale, Rv. 224181; ribadita da Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671, nonché, tra le tante, da Sez. 2, n. 18132 del 13/O4/2016, Rv. 266907; Sez. 6, n. 33885 del 18/O6/2014, Rv. 260178; Sez. 6, n. 47081 del 24/10/20 13 Rv. 258028).
Dev’essere ben chiaro, peraltro, che “partecipazione” e “concorso esterno” costituiscono fenomeni alternativi fra loro, in quanto la condotta associativa implica la conclusione di un pactum scelerís fra il singolo e l’organizzazione criminale, in forza del quale il primo rimane stabilmente a disposizione della seconda per il perseguimento dello scopo sociale, con la volontà di appartenere al gruppo, e |’organizzazione lo riconosce ed include nella propria struttura, anche soltanto per facta concludent/’a e senza necessità di manifestazioni formali o rituali; il concorrente esterno, invece, rimane estraneo al vincolo associativo, pur fornendo un contributo causalmente orientato alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione ovvero di una sua articolazione di settore o territoriale, nonché diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. Da ciò consegue che, specialmente in sede cautelare, un unico percorso motivazionale non può essere fungibilmente riferito all^una o all’altra delle due fattispecie alternative (Sez. 6, n. 16958 del O8/01/2014, Rv. 261475).
1.3. In applicazione di tali princìpi allo specifico tema – che qui rileva – dei rapporti tra imprenditoria e fenomeno criminale mafioso, la giurisprudenza di questa Corte, da cui il Collegio non trova ragioni per discostarsi, ha dunque precisato che l’impresa può definirsi “mafiosa“, allorché vi sia totale sovrapposizione tra essa e la consorteria criminale, della quale condivide progetti e dinamiche operative, divenendone perciò strumento per la realizzazione del programma criminoso, con una conseguente commistione obiettiva delle rispettive attività, o comunque quando l’intera attività d’impresa sia inquinata dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse economiche provento di delitto, di tal che risulti impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti (Sez. 6, n. 39911 dei 04/06/2014, Rv. 261588); ovvero, in alternativa, qualora l’impresa sia pur sempre direttamente sottoposta al controllo deIl’associazione mafiosa (Sez. 6, n. 13296 del 30/01/2018, Rv. 272640).
In presenza di tali presupposti, dunque, non vi può esser dubbio sul fatto che l’imprenditore, quantunque non formalmente fidelizzato al sodalizio, prenda parte allo stesso ed alla sua attività illecita.
Integra, invece, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la condotta del c.d. “imprenditore colluso“, tale essendo colui che, pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della affectío societatis, instauri con la cosca, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi, consistenti, per l`imprenditore, nelI’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi od utilità.
Tale situazione è stata da questa Corte riconosciuta, ad esempio, nel caso di colui che, interferendo nella gestione di appalti pubblici, riusciva ad ottenere commesse per la propria azienda e, in tal modo, il rafforzamento, per il sodalizio di riferimento, della capacità di influenza nel settore economico, grazie ad appalti ad imprese ad esso contigue (Sez. 6, n. 30346 del 18/O4/2013, Rv. 256740); oppure di chi, occupandosi del trasporto dei rifiuti presso un termovalizzatore, poneva in essere una sistematica sovrafatturazìone, mediante la quale veniva occultato il “pizzo“, pagato dalla società che gestiva il termovalizzatore e successivamente riversato all’associazione criminosa, ottenendone in cambio il monopolio del servizio di trasporto (Sez. 6, n. 25261 del 19/04/2018, Rv. 273390); o, ancora, nell’ipotesi – quasi di scuola – dell’imprenditore accordatosi con i vertici del clan, al fine di ottenere il monopolio, nei quartieri di rispettivo controllo, della gestione degli apparati da gioco elettronici (cc.dd. <i>videopoker</i> o simili), in cambio del versamento di corrispettivi sulle entrate, fissi o in misura percentuale (Sez. 5, n. 30133 del 05/06/2018, Rv. 273683).
2. Cosi delimitato il modello normativo di comparazione, alla stregua del quale dev’essere valutata la condotta del ricorrente, ritiene il Collegio che quest’ultima non integri l’ipotizzato reato di cui all’art. 416-bis, cod. pen..
Ugo Bernardo R. è il figlio di Pietro; quest’ultimo è il fratello di Silvio, il quale, a sua volta, al di là delle cariche formali distribuite tra i familiari, è il principale referente delle diverse imprese di famiglia, attive nel settore delle onoranze funebri nell’area lametina.
2.1. Tanto premesso, neppure l’accusa, anzitutto, ipotizza che qualcuno dei R. sia formalmente affiliato alla cosca ritenuta di riferimento, né, ovviamente, ad altra articolazione della `ndrangheta.
Quanto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, esse risultano generiche, spesso di rilevanza soltanto sociologica, nonché al confine con le considerazioni di tipo personale.
Non altrimenti possono essere valutate, ad esempio, quelle di Gennaro P., là dove ha affermato che «per esserci sviluppo a Lametia Terme… ci vuole il consenso delle famiglie di `ndrangheta>>; che <<ogni ditta di onoranze funebri di quelle che conosco io… ha una famiglia di ‘ndrangheta di referenza>>; che «è normale che avere di riferimento il Bruno G. di turno o il Vincenzo I. di turno, ti mandano clienti». E, anche quando costui si è soffermato espressamente sul R., si è limitato a riferire di aver appreso da G. che quegli <<è un amico, un imprenditore di riferimento, ci fa i regali, a Pasqua, a Natale si fa vedere, se abbiamo bisogno per l’avvocato è disponibile, le assunzioni …›>; altresì aggiungendo, relativamente ai contrasti tra le ditte di costoro e quelle concorrenti, che «i referenti delle varie cosche cercavano di sanare queste lamentele in modo da creare comunque una sorta di monopolio», senza nemmeno accennare, tuttavia, ad autori, modalità, circostanze ed esiti di tale mediazione mafiosa.
Obiezione, quest’ultima, che vale anche per l’altro collaborante, Matteo V., che, con un minimo di specificità maggiore, ha ascritto al già rammentato Bruno G. il tentativo di pacificazione tra i R. ed i loro maggiori concorrenti P., al fine di <<fare un’unica società per evitare la guerra». Anch’egIi, però, sul contenuto delle relazioni del ricorrente e della sua famiglia con gli esponenti dell’associazione mafiosa, nulla ha saputo specificare, se non una generica contiguità: «mi spiegava lui [proprio Ugo Bernardo R., ossia]: “Quando esce con noi, ci fermano, tutti lo sanno qua a Lamezia chi è Bruno G., allora cosi noi abbiamo una copertura che risulta che lavorava con noi e nessuno può dire il contrario”>>; oppure, ancora: «dietro i R. ci sono i fratelli G., Alfredo e Bruno, quindi di conseguenza… c’erano dietro la famiglia C., D. e I.».
E’ di solare evidenza A stando a quanto s’è detto dianzi al § 1. – che, per sorreggere un addebito di partecipazione ad associazione mafiosa, anche al meno stringente livello della gravità indiziaria, non possa essere sufficiente affermare che l’incolpato abbia “dietro” di sé una famiglia mafiosa “di referenza“, sia “amico” della stessa o possa godere della “copertura” di qualche suo adepto, essendo necessario, invece, riempire tali concetti, generici ed inevitabilmente relativi, di fatti, episodi, circostanze e comportamenti concreti, e magari verificabili, dal quali sia possibile inferire, con logico argomentare, quel “rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio” in cui si sostanzia la condotta partecipativa.
Né appaiono decisivi, a tal fine, gli ulteriori elementi valorizzati dall’impugnata ordinanza.
Il dato relativo all’aumento del fatturato delle imprese dei R., in concomitanza con l’assunzione del “mafioso” F., è contrastato dalla difesa ricorrente con dati documentali specifici, sui quali l’ordinanza non si sofferma.
Quanto, poi, alle assunzioni di elementi organici alla cosca o di loro familiari (in numero comunque esiguo rispetto al complessivo personale dipendente), al sostegno economico in favore di detenuti (peraltro nell’ordinanza si fa menzione solo di due casi e di importi modesti) ed ai “regali” in occasione delle feste, si tratta di circostanze non univocamente sintomatiche di una stabile “messa a disposizione” deIl’imprenditore in favore del sodalizio, bensì perfettamente compatibili anche con un rapporto di tipo collusivo con esso, rilevante quale ipotetico concorso esterno, se non, addirittura, con una posizione di vittima dello stesso.
2.2. Se, dunque, il compendio istruttorio, in relazione all’ip0tizzato delitto associativo, è del tutto insufficiente per la famiglia R. generalmente intesa, ancor di più lo è per l’odierno ricorrente: per il quale, infatti, l’accusa poggia pressoché esclusivamente sulle dichiarazioni del collaborante Vescìo, che ha riferito della personale partecipazione di costui a riunioni strategiche e ad episodi violenti nell’àmbito della guerra con i rivali P..
V’è, però, che l’attendibilità del V. non sempre è stata riconosciuta (secondo quanto è dato apprendere dalla stessa ordinanza impugnata: pag. 17); ma soprattutto che egli ha esposto accadimenti riferitigli tutti e soltanto dallo stesso ricorrente, nonché rimasti privi di obiettivi ed inequivoci elementi di conferma. Ragione per cui assai limitata, se non proprio inapprezzabile, ne risulta la valenza indiziante.
2.3. Mancando, pertanto, nella condotta dell’indagato, così come ricostruita dal Tribunale, elementi sufficientemente concludenti per ravvisarvì gli estremi della “partecipazione” descritta dall’art. 416-bis, cod. pen., l’impugnata ordinanza dev’essere, sul punto, annullata senza rinvio.
L’annullamento, inoltre, non può che estendersi all’ordinanza cautelare genetica, in quanto erroneamente confermata sul punto da quella quivi impugnata ed annullata.
3. Analoga sorte, tuttavia con rinvio per un indispensabile approfondimento istruttorio, tocca all’ordinanza del Tribunale del riesame nella parte relativa all’ipotizzata concorrenza illecita con minaccia o violenza (art. 513-bis, cod. pen.).
3.1. Il dato di contesto, sotto questo profilo, non può essere revocato in dubbio. L’occupazione militare degli spazi del|’ospedale di Lamezia da parte dei dipendenti delle ditte dei R., anche se non solo di essi; gli atti di protervia, se non di vera e propria minaccia, verso il personale sanitario; l’impiego di personaggi noti, nel paese, come malavitosi; il favore dei necrofori, non si capisce bene se estorto o comprato: tutto questo, ed anche altro, risulta indiscutibilmente dalle conversazioni intercettate tra i vari indagati, dalle informazioni testimoniali del personale sanitario, dai servizi di osservazione compiuti dalla polizia giudiziaria, di cui l’ordinanza impugnata dà ampio conto.
3.2. Né colgono nel segno gli argomenti difensivi per cui con la famiglia P. fosse in atto un’annosa “guerra” e che, comunque, violenze e minacce siano state rivolte, al più, al personale sanitario, mentre la fattispecie criminosa in esame ne presupporrebbe l’esclusíva direzione verso imprenditori concorrenti.
L’esistenza del conflitto con i P., di cui v’e ampia traccia nelle conversazioni telefoniche intercettate, anziché porsi in contrasto con l’accusa, ne dà qualificata conferma, poiché la reciprocità delle condotte aggressive non può valere a scriminarle.
Giuridicamente errato, infine, è l’assunto per cui il destinatario diretto della condotta aggressiva debba essere necessariamente un imprenditore: caratteristica della condotta, invero, non richiesta dall’art. 513-bis, cod. pen..
Giova precisare, infatti, che sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti coercitivi, connotati da violenza o minaccia, esplicati nell’esercizio di attività commerciali, industriali o produttive, che integrano atti di concorrenza sleale ai sensi deIl’art. 2598, cod. civ., ivi compresi i comportamenti, diversi da quelli indicati ai numeri 1) e 2), specificamente volti ad alterare l’ordinario e libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato, comprese le intese restrittive della libertà di concorrenza e degli abusi di posizione dominante descritti negli artt. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990 (Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Rv. 274288; Sez. 2, n. 30406 del 19/O6/2018, Rv. 273374; Sez. 6, ri. 38551 del 05/06/2018, RV. 274101).
Si tratta di comportamenti che, come ognuno può vedere, materialmente possono essere diretti anche nei confronti di persona diversa da||’imprenditore concorrente, pur se funzionali ed idonei a danneggiare quest’ultimo sul mercato: basti pensare, soltanto per fare un esempio, alla minaccia rivolta al privato utilizzatore del bene o servizio, diretta ad orientarne la scelta fra più operatori di mercato disponibili.
Peraltro, e solo per inciso, va osservato come l’allegazione difensiva, oltre che errata in diritto, non è nemmeno fondata in fatto.
Nell’impugnata ordinanza si legge, ad esempio, delle rimostranze di uno degli impresari di onoranze funebri del luogo, tale Francesco C., che chiama per telefono Pietro P. e Silvio R., zio dell’odierno ricorrente, per intimare loro di dissuadere i rispettivi operai dalle prevaricazioni che stavano mettendo in atto verso i suoi dipendenti presso l’ospedale, in occasione dell’allestimento di un servizio funebre (pagg. 20 s., ordinanza). Del resto, di quali fossero le intenzioni di costoro, oltre che il contesto di fondo, si ha la più qualificata conferma nella conversazione intercettata proprio tra Silvio R. e Pietro P. il 24 aprile 2016, in cui i due convengono che «<i>questo schifo deve finire</i>» e si propongono di coalizzarsi proprio contro il loro concorrente V. (<<meno spazio gli dovremmo dare>>›), commentando che «<i>fino a quando siamo stati solo noi due allora la cosa si è contenuta</i>» (pagg. 9 s., ord.).
3.3. L’ordinanza, invece, risulta inaccettabilmente lacunosa con riferimento alla specifica posizione dell’odierno ricorrente.
Può ritenersi adeguatamente dimostrato che quegli svolgesse un ruolo attivo nelle imprese di famiglia e che ne conoscesse a fondo i metodi operativi: è stato intercettato, infatti, un suo colloquio telefonico con il dipendente F., individuo ben inserito nei locali circuiti criminali, al quale R. si premura di raccomandare un comportamento adeguato nell’attività di soccorso di una paziente del reparto ortopedia, trattandosi della moglie di un militare della Guardia di finanza.
Tuttavia, l’ordinanza non riporta nemmeno un episodio aggressivo a lui personalmente riferibile e – secondo quanto si deduce in ricorso, con indicazione specifica dei relativi elementi di prova – nessuno degli operatori sanitari lo avrebbe indicato quale autore di simili condotte; inoltre, egli avrebbe avuto titolo legittimo per frequentare abitualmente quell’ospedale, svolgendovi professionalmente l’attività di infermiere, al punto da essere stato ivi successivamente assunto in tale qualità.
Si tratta, dunque, di un quadro istruttorio che, se riguardato complessivamente, si presenta piuttosto contraddittorio e, dunque, equivoco, insufficiente, come tale, a sorreggere una valutazione di gravità indiziaria, ormai comunemente intesa come qualificata probabilità di colpevolezza allo stato degli atti.
Tale piattaforma probatoria, allora, dev’essere necessariamente arricchita da ulteriori elementi eventualmente presenti negli atti a disposizione del Tribunale o, altrimenti, resa più eloquente da quest’ultimo, evitando scivolose valutazioni di tipo generalizzante ed evidenziando, invece, gli elementi dai quali desumere lo specifico concorso del ricorrente nel reato.
4. Per effetto di quanto sin qui esposto, il profilo attinente alle esigenze cautelari rimane superato, risultando perciò superflua la trattazione del relativo motivo di ricorso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché il provvedimento del G.i.p. del Tribunale di Catanzaro in data 7 novembre 2018, limitatamente all’incolpazione di cui all’art. 416-<i>bis</i> cod. pen..
Annulla l’ordinanza medesima, relativamente all’incolpazione di cui all’art. 513-bis cod. pen., e rinvia per nuova deliberazione al riguardo al Tribunale di Catanzaro › sezione per il riesame.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui a|l’art. 94, comma 1-<i>ter</i>, disp. att. cod. proc. pen..
Cosi deciso in Roma, il 18 aprile 2019.
Penale Sent. Sez. 6 Num. 37520 Anno 2019
Presidente: TRONCI ANDREA
Relatore: ROSATI MARTINO
Data Udienza: 18/04/2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da
R. Ugo Bernardo, nato a Lamezia Terme il 25/06/1985
avverso |’ordinanza emessa il 18/12/2018 dal Tribunale di Catanzaro;
visti gii atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Martino Rosati;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Assunta Cocomello, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;
udito il difensore, avv. Renzo Andricciola del Foro di Lamezia Terme, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La difesa di Ugo Bernardo R. ricorre per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Catanzaro dei 18-19 dicembre 2018, che, in funzione di giudice del riesame, ha confermato l’ordinanza emessa il 7 novembre precedente dal Giudice perle indagini preliminari di quel Tribunale, con la quale è stata a costui applicata la custodia cautelare in carcere, in relazione ai delitti di cui agli artt. 416-bis, commi 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 8, e 513-bis, aggravato ex art. 416-bís.1, cod. pen..
2. Con un unico, articolato motivo, la difesa ricorrente deduce violazione di legge, inosservanza di norme processuali e vizi di motivazione, contestando la gravità indiziaria del compendio istruttorio valorizzato dall’impugnata ordinanza e la sussistenza di esigenze cautelari, ivi ritenuta.
Nei limiti imposti dail’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen., le doglianze difensive possono sinteticamente esporsi nei termini che seguono:
a) irrilevanza delle dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia, poiché generiche, non coincidenti tra loro e prive di riscontri individualizzanti; costoro non parlano dei fratelli R. (Governa, Torcasio); oppure riferiscono di non aver intrattenuto con essi contatti diretti e, quindi, espongono soltanto notizie de re/ato (Giampà, P.); od ancora (V.) narrano di fatti anteriori al novembre del 2010, termine a quo dell’imputazione provvisoria elevata all’indagato ed ai suoi congiunti nel presente procedimento; e comunque nessuno indica questi ultimi, ed ancor meno l’odierno ricorrente, come partecipi di un’associazione di tipo mafioso;
b) inesistenza, in atti, di alcun contatto diretto tra quest’ultimo ed i membri di quella consorteria criminale;
c) non concludenza indiziante delle assunzioni, presso le ditte dei fratelli
R., di dipendenti con precedenti penali e legati alle cosche di `ndrangheta confederate I.-C.-D., in quanto:
– non si comprende come la consorteria mafiosa potesse beneficiare dei guadagni delle ditte dei R.;
– emerge dalle intercettazioni che Silvio R., zio dell’indagato ed effettivo gestore, insieme al proprio fratello Pietro, delle aziende di famiglia, avesse manifestato perplessità e resistenze all’assunzione di G. Alfredo, soggetto ritenuto intraneo a quelle cosche; ed anche l’odierno ricorrente – si legge nell’informativa finale della polizia giudiziaria – sarebbe stato «<i>costretto a non opporsi</i>» a quell’assunzione;
– degli ottanta dipendenti della “R. Servizi s.a.s.”, società riconducibile all’indagato, soltanto il 2,4% annoverava pregiudizi penali;
› il cospicuo aumento di fatturato delle società dei R. nel 2015 è stato dovuto ai consistenti investimenti effettuati, e documentati al Tribunale del riesame (nuove sedi, nuovi veicoli, funeral house), e non può essere ricollegato – come invece illogicamente opina il Tribunale – all’assunz1one di soggetti in ipotesi aderenti a sodalizi mafiosi, come i dipendenti G. Alfredo (peraltro per un periodo di soli tre mesi), F. Pietro e Re. Pasquale;
– l’ordinanza custodiale, nel presente procedimento, per i predetti G. e Re. è stata annullata per carenza di gravi indizi, mentre F. non è indicato come partecipe a nessuna delle suddette cosche confederate;
d) costruzione accusatoria di un duopolio tra le ditte dei R. e quelle dei concorrenti P. soltanto congetturale: collaboranti ed intercettazioni attestano come tra le due famiglie vi fosse, da anni, una vera e propria “guerra”, con ripetuti screzi ed atti d’intimidazione; e solo i R., e non i P., in conseguenza dell’esclusione da una gara d’appalto per l’affidamento del servizio di ambulanze, avevano proposto un ricorso al T.A.R.;
e) ascrivibilità delle condotte di prevaricazione ed arroganza all’interno dell’ospedale di Lamezia Terme, descritte dagli operatori sanitari ed amministrativi dello stesso, soltanto a dipendenti dei P. e non anche dei R.; anzi, con particolare riferimento ad Ugo R., la dipendente ospedaliera S. lo ha descritto come spesso presente in ospedale, ma ha spiegato che «non ha mai fatto nulla di strano>>;
f) irrilevanza, ai fini del citato art. 513-bis, di eventuali atti arroganti o di sopraffazione nei confronti dei dipendenti dell’ospedale, poiché quella fattispecie di reato richiede la direzione di tali condotte verso imprenditori concorrenti: nessuno dei quali, invece, ha riferito di simili comportamenti; anzi, da una telefonata intercettata tra S. Tommaso, socio dei R., e V. Alfredo, imprenditore loro concorrente, risulta che quest’ultimo sarebbe stato aiutato dall’altro per l’apertura di un conto in banca;
g) inesistenza di esigenze cautelari concrete ed attuali: nessuno ha mai indicato il ricorrente come autore di condotte delittuose, sicché egli non avrebbe interesse ad avvicinare chicchessia; questi, inoltre, ha dismesso le proprie quote nelle società di famiglia da oltre un anno e, avendo conseguito la laurea in scienze infermieristiche, è stato assunto a tempo determinato presso quell’ospedale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Le doglianze sull’insufficienza della motivazione, nella parte relativa alla ritenuta sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per il delitto associativo, sono fondate.
Gli elementi istruttori valorizzati a tal fine dal Tribunale, infatti, pur ad una lettura complessiva e coordinata, non sono tali da delineare una condotta dell’indagato sussumibile nel paradigma normativo dell’art. 416-bis, cod. pen..
1.1. Quale premessa d’ordine sistematico, può essere utile precisare che, in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di “partecipazione” è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
La partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali, dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza, attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi l’appartenenza nel senso indicato, purché si tratti di indizi gravi e precisi, quali, per esemplificare, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, la rituale affiliazione, la commissione di delitti-scopo, e qualsiasi altro comportamento concludente, purché significativo, in quanto idoneo, sotto il profilo logico, ad offrire la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazi0ne (così, Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231670, costantemente ribadita dalla giurisprudenza successiva: tra le tante, Sez. 5, n. 45840 del 14/06/2018 Rv. 274180; Sez. 6, n. 12554 del 01/03/2016, Rv. 267418; Sez. 5, n. 6882 del 06/11/2015, Rv. 266064).
Non rilevano, invece, le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale, le quali, anzi, non sono sufficienti nemmeno ad integrare la diversa – e meno stringente – condizione di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa, rilevante ai fini del|’applicazione delle misure di prevenzione e che, comunque, postuia una condotta funzionale agli scopi associativi, ancorché isolata (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, Gattuso, Rv. 271512).
1.2, Finitima a quella del partecipe è la figura del c.d. “concorrente esterno” o “eventuale” al sodalizio mafioso.
Anche nell’individuazione dei tratti caratterizzanti quest’ultima, la lettura della giurisprudenza di legittimità può dirsi ormai uniforme: è tale, ossia, la persona che, pur priva della affectio societatis e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purché detto contributo abbia un`effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e I’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002, Carnevale, Rv. 224181; ribadita da Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231671, nonché, tra le tante, da Sez. 2, n. 18132 del 13/O4/2016, Rv. 266907; Sez. 6, n. 33885 del 18/O6/2014, Rv. 260178; Sez. 6, n. 47081 del 24/10/20 13 Rv. 258028).
Dev’essere ben chiaro, peraltro, che “partecipazione” e “concorso esterno” costituiscono fenomeni alternativi fra loro, in quanto la condotta associativa implica la conclusione di un pactum scelerís fra il singolo e l’organizzazione criminale, in forza del quale il primo rimane stabilmente a disposizione della seconda per il perseguimento dello scopo sociale, con la volontà di appartenere al gruppo, e |’organizzazione lo riconosce ed include nella propria struttura, anche soltanto per facta concludent/’a e senza necessità di manifestazioni formali o rituali; il concorrente esterno, invece, rimane estraneo al vincolo associativo, pur fornendo un contributo causalmente orientato alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione ovvero di una sua articolazione di settore o territoriale, nonché diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. Da ciò consegue che, specialmente in sede cautelare, un unico percorso motivazionale non può essere fungibilmente riferito all^una o all’altra delle due fattispecie alternative (Sez. 6, n. 16958 del O8/01/2014, Rv. 261475).
1.3. In applicazione di tali princìpi allo specifico tema – che qui rileva – dei rapporti tra imprenditoria e fenomeno criminale mafioso, la giurisprudenza di questa Corte, da cui il Collegio non trova ragioni per discostarsi, ha dunque precisato che l’impresa può definirsi “mafiosa“, allorché vi sia totale sovrapposizione tra essa e la consorteria criminale, della quale condivide progetti e dinamiche operative, divenendone perciò strumento per la realizzazione del programma criminoso, con una conseguente commistione obiettiva delle rispettive attività, o comunque quando l’intera attività d’impresa sia inquinata dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse economiche provento di delitto, di tal che risulti impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti (Sez. 6, n. 39911 dei 04/06/2014, Rv. 261588); ovvero, in alternativa, qualora l’impresa sia pur sempre direttamente sottoposta al controllo deIl’associazione mafiosa (Sez. 6, n. 13296 del 30/01/2018, Rv. 272640).
In presenza di tali presupposti, dunque, non vi può esser dubbio sul fatto che l’imprenditore, quantunque non formalmente fidelizzato al sodalizio, prenda parte allo stesso ed alla sua attività illecita.
Integra, invece, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la condotta del c.d. “imprenditore colluso“, tale essendo colui che, pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della affectío societatis, instauri con la cosca, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi, consistenti, per l`imprenditore, nelI’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi od utilità.
Tale situazione è stata da questa Corte riconosciuta, ad esempio, nel caso di colui che, interferendo nella gestione di appalti pubblici, riusciva ad ottenere commesse per la propria azienda e, in tal modo, il rafforzamento, per il sodalizio di riferimento, della capacità di influenza nel settore economico, grazie ad appalti ad imprese ad esso contigue (Sez. 6, n. 30346 del 18/O4/2013, Rv. 256740); oppure di chi, occupandosi del trasporto dei rifiuti presso un termovalizzatore, poneva in essere una sistematica sovrafatturazìone, mediante la quale veniva occultato il “pizzo“, pagato dalla società che gestiva il termovalizzatore e successivamente riversato all’associazione criminosa, ottenendone in cambio il monopolio del servizio di trasporto (Sez. 6, n. 25261 del 19/04/2018, Rv. 273390); o, ancora, nell’ipotesi – quasi di scuola – dell’imprenditore accordatosi con i vertici del clan, al fine di ottenere il monopolio, nei quartieri di rispettivo controllo, della gestione degli apparati da gioco elettronici (cc.dd. <i>videopoker</i> o simili), in cambio del versamento di corrispettivi sulle entrate, fissi o in misura percentuale (Sez. 5, n. 30133 del 05/06/2018, Rv. 273683).
2. Cosi delimitato il modello normativo di comparazione, alla stregua del quale dev’essere valutata la condotta del ricorrente, ritiene il Collegio che quest’ultima non integri l’ipotizzato reato di cui all’art. 416-bis, cod. pen..
Ugo Bernardo R. è il figlio di Pietro; quest’ultimo è il fratello di Silvio, il quale, a sua volta, al di là delle cariche formali distribuite tra i familiari, è il principale referente delle diverse imprese di famiglia, attive nel settore delle onoranze funebri nell’area lametina.
2.1. Tanto premesso, neppure l’accusa, anzitutto, ipotizza che qualcuno dei R. sia formalmente affiliato alla cosca ritenuta di riferimento, né, ovviamente, ad altra articolazione della `ndrangheta.
Quanto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, esse risultano generiche, spesso di rilevanza soltanto sociologica, nonché al confine con le considerazioni di tipo personale.
Non altrimenti possono essere valutate, ad esempio, quelle di Gennaro P., là dove ha affermato che «per esserci sviluppo a Lametia Terme… ci vuole il consenso delle famiglie di `ndrangheta>>; che <<ogni ditta di onoranze funebri di quelle che conosco io… ha una famiglia di ‘ndrangheta di referenza>>; che «è normale che avere di riferimento il Bruno G. di turno o il Vincenzo I. di turno, ti mandano clienti». E, anche quando costui si è soffermato espressamente sul R., si è limitato a riferire di aver appreso da G. che quegli <<è un amico, un imprenditore di riferimento, ci fa i regali, a Pasqua, a Natale si fa vedere, se abbiamo bisogno per l’avvocato è disponibile, le assunzioni …›>; altresì aggiungendo, relativamente ai contrasti tra le ditte di costoro e quelle concorrenti, che «i referenti delle varie cosche cercavano di sanare queste lamentele in modo da creare comunque una sorta di monopolio», senza nemmeno accennare, tuttavia, ad autori, modalità, circostanze ed esiti di tale mediazione mafiosa.
Obiezione, quest’ultima, che vale anche per l’altro collaborante, Matteo V., che, con un minimo di specificità maggiore, ha ascritto al già rammentato Bruno G. il tentativo di pacificazione tra i R. ed i loro maggiori concorrenti P., al fine di <<fare un’unica società per evitare la guerra». Anch’egIi, però, sul contenuto delle relazioni del ricorrente e della sua famiglia con gli esponenti dell’associazione mafiosa, nulla ha saputo specificare, se non una generica contiguità: «mi spiegava lui [proprio Ugo Bernardo R., ossia]: “Quando esce con noi, ci fermano, tutti lo sanno qua a Lamezia chi è Bruno G., allora cosi noi abbiamo una copertura che risulta che lavorava con noi e nessuno può dire il contrario”>>; oppure, ancora: «dietro i R. ci sono i fratelli G., Alfredo e Bruno, quindi di conseguenza… c’erano dietro la famiglia C., D. e I.».
E’ di solare evidenza A stando a quanto s’è detto dianzi al § 1. – che, per sorreggere un addebito di partecipazione ad associazione mafiosa, anche al meno stringente livello della gravità indiziaria, non possa essere sufficiente affermare che l’incolpato abbia “dietro” di sé una famiglia mafiosa “di referenza“, sia “amico” della stessa o possa godere della “copertura” di qualche suo adepto, essendo necessario, invece, riempire tali concetti, generici ed inevitabilmente relativi, di fatti, episodi, circostanze e comportamenti concreti, e magari verificabili, dal quali sia possibile inferire, con logico argomentare, quel “rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio” in cui si sostanzia la condotta partecipativa.
Né appaiono decisivi, a tal fine, gli ulteriori elementi valorizzati dall’impugnata ordinanza.
Il dato relativo all’aumento del fatturato delle imprese dei R., in concomitanza con l’assunzione del “mafioso” F., è contrastato dalla difesa ricorrente con dati documentali specifici, sui quali l’ordinanza non si sofferma.
Quanto, poi, alle assunzioni di elementi organici alla cosca o di loro familiari (in numero comunque esiguo rispetto al complessivo personale dipendente), al sostegno economico in favore di detenuti (peraltro nell’ordinanza si fa menzione solo di due casi e di importi modesti) ed ai “regali” in occasione delle feste, si tratta di circostanze non univocamente sintomatiche di una stabile “messa a disposizione” deIl’imprenditore in favore del sodalizio, bensì perfettamente compatibili anche con un rapporto di tipo collusivo con esso, rilevante quale ipotetico concorso esterno, se non, addirittura, con una posizione di vittima dello stesso.
2.2. Se, dunque, il compendio istruttorio, in relazione all’ip0tizzato delitto associativo, è del tutto insufficiente per la famiglia R. generalmente intesa, ancor di più lo è per l’odierno ricorrente: per il quale, infatti, l’accusa poggia pressoché esclusivamente sulle dichiarazioni del collaborante Vescìo, che ha riferito della personale partecipazione di costui a riunioni strategiche e ad episodi violenti nell’àmbito della guerra con i rivali P..
V’è, però, che l’attendibilità del V. non sempre è stata riconosciuta (secondo quanto è dato apprendere dalla stessa ordinanza impugnata: pag. 17); ma soprattutto che egli ha esposto accadimenti riferitigli tutti e soltanto dallo stesso ricorrente, nonché rimasti privi di obiettivi ed inequivoci elementi di conferma. Ragione per cui assai limitata, se non proprio inapprezzabile, ne risulta la valenza indiziante.
2.3. Mancando, pertanto, nella condotta dell’indagato, così come ricostruita dal Tribunale, elementi sufficientemente concludenti per ravvisarvì gli estremi della “partecipazione” descritta dall’art. 416-bis, cod. pen., l’impugnata ordinanza dev’essere, sul punto, annullata senza rinvio.
L’annullamento, inoltre, non può che estendersi all’ordinanza cautelare genetica, in quanto erroneamente confermata sul punto da quella quivi impugnata ed annullata.
3. Analoga sorte, tuttavia con rinvio per un indispensabile approfondimento istruttorio, tocca all’ordinanza del Tribunale del riesame nella parte relativa all’ipotizzata concorrenza illecita con minaccia o violenza (art. 513-bis, cod. pen.).
3.1. Il dato di contesto, sotto questo profilo, non può essere revocato in dubbio. L’occupazione militare degli spazi del|’ospedale di Lamezia da parte dei dipendenti delle ditte dei R., anche se non solo di essi; gli atti di protervia, se non di vera e propria minaccia, verso il personale sanitario; l’impiego di personaggi noti, nel paese, come malavitosi; il favore dei necrofori, non si capisce bene se estorto o comprato: tutto questo, ed anche altro, risulta indiscutibilmente dalle conversazioni intercettate tra i vari indagati, dalle informazioni testimoniali del personale sanitario, dai servizi di osservazione compiuti dalla polizia giudiziaria, di cui l’ordinanza impugnata dà ampio conto.
3.2. Né colgono nel segno gli argomenti difensivi per cui con la famiglia P. fosse in atto un’annosa “guerra” e che, comunque, violenze e minacce siano state rivolte, al più, al personale sanitario, mentre la fattispecie criminosa in esame ne presupporrebbe l’esclusíva direzione verso imprenditori concorrenti.
L’esistenza del conflitto con i P., di cui v’e ampia traccia nelle conversazioni telefoniche intercettate, anziché porsi in contrasto con l’accusa, ne dà qualificata conferma, poiché la reciprocità delle condotte aggressive non può valere a scriminarle.
Giuridicamente errato, infine, è l’assunto per cui il destinatario diretto della condotta aggressiva debba essere necessariamente un imprenditore: caratteristica della condotta, invero, non richiesta dall’art. 513-bis, cod. pen..
Giova precisare, infatti, che sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti coercitivi, connotati da violenza o minaccia, esplicati nell’esercizio di attività commerciali, industriali o produttive, che integrano atti di concorrenza sleale ai sensi deIl’art. 2598, cod. civ., ivi compresi i comportamenti, diversi da quelli indicati ai numeri 1) e 2), specificamente volti ad alterare l’ordinario e libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato, comprese le intese restrittive della libertà di concorrenza e degli abusi di posizione dominante descritti negli artt. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990 (Sez. 6, n. 50084 del 12/07/2018, Rv. 274288; Sez. 2, n. 30406 del 19/O6/2018, Rv. 273374; Sez. 6, ri. 38551 del 05/06/2018, RV. 274101).
Si tratta di comportamenti che, come ognuno può vedere, materialmente possono essere diretti anche nei confronti di persona diversa da||’imprenditore concorrente, pur se funzionali ed idonei a danneggiare quest’ultimo sul mercato: basti pensare, soltanto per fare un esempio, alla minaccia rivolta al privato utilizzatore del bene o servizio, diretta ad orientarne la scelta fra più operatori di mercato disponibili.
Peraltro, e solo per inciso, va osservato come l’allegazione difensiva, oltre che errata in diritto, non è nemmeno fondata in fatto.
Nell’impugnata ordinanza si legge, ad esempio, delle rimostranze di uno degli impresari di onoranze funebri del luogo, tale Francesco C., che chiama per telefono Pietro P. e Silvio R., zio dell’odierno ricorrente, per intimare loro di dissuadere i rispettivi operai dalle prevaricazioni che stavano mettendo in atto verso i suoi dipendenti presso l’ospedale, in occasione dell’allestimento di un servizio funebre (pagg. 20 s., ordinanza). Del resto, di quali fossero le intenzioni di costoro, oltre che il contesto di fondo, si ha la più qualificata conferma nella conversazione intercettata proprio tra Silvio R. e Pietro P. il 24 aprile 2016, in cui i due convengono che «<i>questo schifo deve finire</i>» e si propongono di coalizzarsi proprio contro il loro concorrente V. (<<meno spazio gli dovremmo dare>>›), commentando che «<i>fino a quando siamo stati solo noi due allora la cosa si è contenuta</i>» (pagg. 9 s., ord.).
3.3. L’ordinanza, invece, risulta inaccettabilmente lacunosa con riferimento alla specifica posizione dell’odierno ricorrente.
Può ritenersi adeguatamente dimostrato che quegli svolgesse un ruolo attivo nelle imprese di famiglia e che ne conoscesse a fondo i metodi operativi: è stato intercettato, infatti, un suo colloquio telefonico con il dipendente F., individuo ben inserito nei locali circuiti criminali, al quale R. si premura di raccomandare un comportamento adeguato nell’attività di soccorso di una paziente del reparto ortopedia, trattandosi della moglie di un militare della Guardia di finanza.
Tuttavia, l’ordinanza non riporta nemmeno un episodio aggressivo a lui personalmente riferibile e – secondo quanto si deduce in ricorso, con indicazione specifica dei relativi elementi di prova – nessuno degli operatori sanitari lo avrebbe indicato quale autore di simili condotte; inoltre, egli avrebbe avuto titolo legittimo per frequentare abitualmente quell’ospedale, svolgendovi professionalmente l’attività di infermiere, al punto da essere stato ivi successivamente assunto in tale qualità.
Si tratta, dunque, di un quadro istruttorio che, se riguardato complessivamente, si presenta piuttosto contraddittorio e, dunque, equivoco, insufficiente, come tale, a sorreggere una valutazione di gravità indiziaria, ormai comunemente intesa come qualificata probabilità di colpevolezza allo stato degli atti.
Tale piattaforma probatoria, allora, dev’essere necessariamente arricchita da ulteriori elementi eventualmente presenti negli atti a disposizione del Tribunale o, altrimenti, resa più eloquente da quest’ultimo, evitando scivolose valutazioni di tipo generalizzante ed evidenziando, invece, gli elementi dai quali desumere lo specifico concorso del ricorrente nel reato.
4. Per effetto di quanto sin qui esposto, il profilo attinente alle esigenze cautelari rimane superato, risultando perciò superflua la trattazione del relativo motivo di ricorso.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata, nonché il provvedimento del G.i.p. del Tribunale di Catanzaro in data 7 novembre 2018, limitatamente all’incolpazione di cui all’art. 416-<i>bis</i> cod. pen..
Annulla l’ordinanza medesima, relativamente all’incolpazione di cui all’art. 513-bis cod. pen., e rinvia per nuova deliberazione al riguardo al Tribunale di Catanzaro › sezione per il riesame.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui a|l’art. 94, comma 1-<i>ter</i>, disp. att. cod. proc. pen..
Cosi deciso in Roma, il 18 aprile 2019.