Corte di Cassazione, Sez. V Pen., 23 luglio 2024, n. 30322

TAG: Attività funebre | casa funeraria /// Norme correlate: Art. 4 d.P.R. 10/9/1990, n. 285

Massima

Costituisce reato di falsità ideologica posta in essere da pubblico ufficiale in atti pubblici l'avere redatto, nella qualità di dirigente medico, una serie di certificati necroscopici falsi, in quanto attestanti l'avvenuto svolgimento della visita necroscopica e l'avvenuto decesso, nonché il compimento delle altre attività specificamente indicate nei singoli certificati, senza avervi effettivamente provveduto. Orbene da tempo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, con un condivisibile arresto, che l`atto di constatazione dell'avvenuto decesso e dell'identificazione delle relative cause, compilato dal medico necroscopo in adempimento del precetto fissato dall'art. 141 R.d. 9 luglio 1939 n. 1238 ("ordinamento dello stato civile") è atto pubblico, poiché esso non ha una funzione meramente narrativa, ma dà vita ad una situazione giuridica caratterizzata dall'attestazione del pubblico ufficiale di avere compiuto una precisa attività (cfr. Sez. 5, n. 8496 del O6/O7/1983, Rv. 160732), costituendo atto pubblico la scheda mortuaria redatta dal medico addetto alla direzione di un ospedale (cfr. Sez. 5, n. 1382 del 11/12/1967, RV. 106509). Principi ribaditi in un recente arresto, in cui, nel confermare la condanna per il reato di cui agli artt. 476 e 479, c.p., la Suprema Corte ha evidenziato che la certificazione demandata al medico necroscopo ha una funzione diversa dalla certificazione del decesso stilata dal medico curante: mentre quest'ultimo può limitarsi a constatare l'avvenuto decesso, il medico necroscopo deve verificare se la morte possa dipendere dalla commissione di un reato o da una causa violenta, ipotesi queste che osterebbero al successivo rilascio dell'autorizzazione alla sepoltura. Di conseguenza, poiché la visita deve essere diretta ad accertare l'esistenza di simili ipotesi ostative alla sepoltura, occorre una vera e propria visita idonea ad escludere la ricorrenza di dette ipotesi (cfr. Sez. 5, n. 22089 del 27.1.2022, non massimata), nel caso che ci occupa pacificamente non effettuata. Ciò posto non è revocabile in dubbio la natura di pubblico ufficiale in quanto in servizio presso una struttura pubblica e incaricato della redazione di atti pubblici, a nulla rilevando la circostanza che egli fosse stato assegnato di fatto all'esercizio delle funzioni di medico necroscopo, al di fuori di un formale provvedimento di assegnazione adottato dalla competente autorità amministrativa. Sul punto, infatti, non può che richiamarsi il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, secondo cui la locuzione "nell'esercizio delle funzioni", contenuta nell'art. 476, c.p., non va intesa in senso specifico, ma generico, ossia come "ambito delle funzioni". Conseguentemente, risponde del reato previsto dalla suddetta norma incriminatrice, e non da quella di cui all'art. 482, c.p., il pubblico ufficiale investito della competenza funzionale in relazione agli atti contraffatti o alterati, o che alteri quelli di cui pervnga in possesso per ragioni d'ufficio, ancorché formati da un pubblico ufficiale appartenente ad un ufficio diverso (cfr. Sez. 5, n. 5652 del 30/04/1996, Rv. 205132; Sez. 5, n. 4679 del 11/01/2000, Rv. 215981). Nell'ambito di competenza funzionale richiamato dall'espressione "esercizio delle sue funzioni", di cui all'art. 476, c.p., rientrano le attività poste in essere dal dipendente della pubblica amministrazione anche nelle vesti di funzionario di fatto (cfr. Sez. 5, n. 47508 del 10/06/2016, Rv. 268428), nozione, quella di pubblico ufficiale, che, come chiarito in altro condivisibile arresto, non viene meno, per un soggetto chiamato a svolgere le relative funzioni, quando sussistano irregolarità nel procedimento o nell'atto di conferimento dell'ufficio, dato che in proposito assume rilievo il mero esercizio dei poteri autoritativi con il consenso dell'amministrazione interessata. (In motivazione la Corte ha distinto il caso delle irregolarità nell'investitura da quello del cosiddetto "funzionario di fatto", ove l'investitura diviene oggetto di una declaratoria di invalidità, la quale per altro non esclude, a sua volta, la validità degli atti compiuti e la qualifica soggettiva dell'agente: cfr. Sez. 6, n. 12175 del 21/O1/2005, Rv. 231481).

Testo

Corte di Cassazione, Sez. V Pen., 23 luglio 2024, n. 30322

Corte di Cassazione, Penale Sent. Sez. 5 Num. 30322 Anno 2024
Presidente: VESSICHELLI MARIA
Relatore: GUARDIANO ALFREDO
Data Udienza: 14/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
G. GIUSEPPE nato a NAPOLI il O2/06/1964
avverso la sentenza del 20/02/2023 della CORTE APPELLO di GENOVA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALFREDO GUARDIANO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PERLA LORI ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso
FATTO E DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Genova riformava parzialmente in senso favorevole all’imputato la sentenza con cui il tribunale di Imperia, in dato 10.9.2021, aveva condannato, tra gli altri, G. Giuseppe alla pena ritenuta di giustizia, in relazione al reato ex artt. 479, 476, co. 2, c.p., in rubrica ascrittogli al capo A) dell’imputazione.
L’imputato, in particolare, è stato ritenuto responsabile del reato in questione, per avere redatto, nella qualità di dirigente medico in servizio presso la struttura complessa di Medicina Legale dell’A.S.L. 1, di Imperia, una serie di certificati necroscopici falsi, in quanto attestanti l’avvenuto svolgimento della visita necroscopica e l’avvenuto decesso, nonché il compimento delle altre attività specificamente indicate nei singoli certificati, senza avervi effettivamente provveduto.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione il G., lamentando: 1) mancata assunzione di una prova decisiva, rappresentata dalla testimonianza del dott. Giorgio F., all’epoca dei fatti per i quali è processo primario del servizio ORL, che avrebbe potuto riferire sullo stato di fragilità psichica del prevenuto, il quale, per tale motivo, non era nelle condizioni di opporsi agli ordini di servizio della dirigente, che lo aveva destinato alle funzioni di medico necroscopo, nonostante egli fosse un otorinolaringoiatra e in assenza di un formale provvedimento di nomina da parte della A.S.L. 1 di Imperia, circostanza di particolare importanza ai fini della valutazione sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato, posto che lo stesso giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Imperia, investito della richiesta di applicazione di una misura cautelare interdittiva nei confronti del G., l’aveva rigettata valorizzando la costrizione di cui l’imputato era stato vittima, a causa del suo esaurimento nervoso; 2) violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto il G. è stato illegittimamente adibito alle funzioni di medico necroscopo, sulla base delle minacce poste in essere nei suoi confronti dalla dott.ssa Simona D., direttrice della S.C. di Medicina Legale, alla quale egli tentò vanamente di opporsi, ricorrendo, pertanto, nel caso in esame, le condizioni per l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 54, c.p.; 3) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento all’affermazione di responsabilità dell’imputato anche in relazione a certificati necroscopici pacificamente formati e utilizzati in assenza del dott. G. dal posto di lavoro ovvero a sua insaputa; 4) violazione di legge e vizio di motivazione in punto di qualificazione giuridica del fatto, che va ricondotto al paradigma normativo di cui all’art. 482, c.p., in quanto gli atti di cui si discute sono stati compiuti dal pubblico ufficiale al di fuori delle sue funzioni, non essendo stato egli delegato a svolgere le mansioni di medico necroscopo.
3. Con requisitoria scritta del 24.2.2024, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa Perla Lori, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
4. Il ricorso va rigettato essendo sorretto da motivi in larga parte infondati.
4.1. Ragioni di coerenza espositiva suggeriscono di partire dal tema della configurabilità del reato di cui si discute, al quale è dedicato il quarto motivo di ricorso, con cui si denuncia una violazione di legge, pur nella consapevolezza che si tratta di un motivo processualmente inammissibile, posto che, come si evince dalla incontestata sintesi dei motivi di appello operata dalla corte territoriale, si tratta di un motivo inedito, articolato per la prima volta con il ricorso per cassazione, che, pertanto, sul punto è inammissibile, ai sensi dell’art. 606, co. 3, c.p.p. Tale motivo, tuttavia, rappresenta lo spunto per una breve riflessione sulla fattispecie illecita in esame, ad avviso del Collegio opportuna.
Orbene da tempo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, con un condivisibile arresto, che l`atto di constatazione dell’avvenuto decesso e dell’identificazione delle relative cause, compilato dal medico necroscopo in adempimento del precetto fissato dall’art. 141 R.d. 9 luglio 1939 n. 1238 (“ordinamento dello stato civile”) è atto pubblico, poiché esso non ha una funzione meramente narrativa, ma dà vita ad una situazione giuridica caratterizzata dall’attestazione del pubblico ufficiale di avere compiuto una precisa attività (cfr. Sez. 5, n. 8496 del O6/O7/1983, Rv. 160732), costituendo atto pubblico la scheda mortuaria redatta dal medico addetto alla direzione di un ospedale (cfr. Sez. 5, n. 1382 del 11/12/1967, RV. 106509).
Principi ribaditi in un recente arresto, in cui, nel confermare la condanna per il reato di cui agli artt. 476 e 479, c.p., la Suprema Corte ha evidenziato che la certificazione demandata al medico necroscopo ha una funzione diversa dalla certificazione del decesso stilata dal medico curante: mentre quest’ultimo può limitarsi a constatare l’avvenuto decesso, il medico necroscopo deve verificare se la morte possa dipendere dalla commissione di un reato o da una causa violenta, ipotesi queste che osterebbero al successivo rilascio dell’autorizzazione alla sepoltura.
Di conseguenza, poiché la visita deve essere diretta ad accertare l’esistenza di simili ipotesi ostative alla sepoltura, occorre una vera e propria visita idonea ad escludere la ricorrenza di dette ipotesi (cfr. Sez. 5, n. 22089 del 27.1.2022, non massimata), nel caso che ci occupa pacificamente non effettuata.
Ciò posto non è revocabile in dubbio la natura di pubblico ufficiale del G., essendo egli in servizio presso una struttura pubblica e incaricato della redazione di atti pubblici, a nulla rilevando la circostanza che egli fosse stato assegnato di fatto all’esercizio delle funzioni di medico necroscopo, al di fuori di un formale provvedimento di assegnazione adottato dalla competente autorità amministrativa.
Sul punto, infatti, non può che richiamarsi il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, secondo cui la locuzione “nell’esercizio delle funzioni”, contenuta nell’art. 476, c.p., non va intesa in senso specifico, ma generico, ossia come “ambito delle funzioni”. Conseguentemente, risponde del reato previsto dalla suddetta norma incriminatrice, e non da quella di cui all’art. 482, c.p., il pubblico ufficiale investito della competenza funzionale in relazione agli atti contraffatti o alterati, 0 che alteri quelli di cui pen/enga in possesso per ragioni d’ufficio, ancorché formati da un pubblico ufficiale appartenente ad un ufficio diverso (cfr. Sez. 5, n. 5652 del 30/04/1996, Rv. 205132; Sez. 5, n. 4679 del 11/01/2000, Rv. 215981).
Nell’ambito di competenza funzionale richiamato dall’espressione “esercizio delle sue funzioni”, di cui all’art. 476, c.p., rientrano le attività poste in essere dal dipendente della pubblica amministrazione anche nelle vesti di funzionario di fatto (cfr. Sez. 5, n. 47508 del 10/06/2016, Rv. 268428), nozione, quella di pubblico ufficiale, che, come chiarito in altro condivisibile arresto, non viene meno, per un soggetto chiamato a svolgere le relative funzioni, quando sussistano irregolarità nel procedimento o nell’atto di conferimento dell’ufficio, dato che in proposito assume rilievo il mero esercizio dei poteri autoritativi con il consenso dell’amministrazione interessata. (In motivazione la Corte ha distinto il caso delle irregolarità nell’investitura da quello del cosiddetto “funzionario di fatto”, ove l’investitura diviene oggetto di una declaratoria di invalidità, la quale per altro non esclude, a sua volta, la validità degli atti compiuti e la qualifica soggettiva dell’agente: cfr. Sez. 6, n. 12175 del 21/O1/2005, Rv. 231481).
Alla luce di tali considerazioni appaiono pertanto infondati i rilievi difensivi (comunque inammissibili per le ragioni già esposte), non solo con riferimento alla qualificazione giuridica dei fatti per cui si procede, ma anche in ordine alla dedotta mancanza di un formale provvedimento di assegnazione del G. alle funzioni di medico necroscopo.
Ciò posto infondati appaiono i primi due motivi di ricorso, il cui fine ultimo è quello di contestare la ossibilità di imputare al G., sotto il profilo soggettivo, la condotta tenuta, in ragione della sua soggezione ai voleri della dott.ssa Del Vecchio (nei confronti della quale si è proceduto separatamente), condotta che sarebbe scriminata ai sensi dell’art. 54, c.p.
Il richiamo a tale ultima disposizione normativa non è condivisibile.
Come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, ai fini della sussistenza della causa di giustificazione dello stato di necessità determinato dall’altrui minaccia, ai sensi dell’art. 54, comma terzo, c.p., è sufficiente anche solo una prospettazione verbale di conseguenze sfavorevoli, caratterizzata – rispetto al contesto in cui si inserisce – da connotati di serietà, gravità e consistenza tali da determinare un’azione imposta dall’esigenza di salvare l’autore immediato dal pericolo attuale di un danno grave alla persona (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 53386 del 14/06/2018, Rv. 274541).
Al riguardo si è precisato che in tema di stato di necessità di cui all’art. 54, c.p., l’imputato ha un onere di allegazione avente per oggetto tutti gli estremi della causa di esenzione, sì che egli deve allegare di avere agito per insuperabile stato di costrizione, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile, e di non avere potuto sottrarsi, nemmeno putativamente, al pericolo minacciato, con la conseguenza che il difetto di tale allegazione esclude l’operatività dell’esimente (cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 12619 del 24/01/2019, Rv. 276173).
Tale onere non è stato assolto dal ricorrente, che non solo non ha specificato in cosa sarebbe consistito l’insuperabile stato di costrizione cui sarebbe stato sottoposto dalla dirigente sanitaria e quale il male imminente, connotato da gravità, minacciato in suo danno, non altrimenti evitabile se non attraverso la realizzazione delle condotte impostegli, ma nemmeno ha indicato le ragioni per cui egli non fu in grado di sottrarsi al pericolo minacciato, non opponendo un netto rifiuto alla redazione di atti che sapeva falsi.
Sul punto non può non rilevarsi la genericità dei richiami operati dal ricorrente agli atti processuali da cui si desumerebbe l’opposizione del G. agli atti della Del Vecchio ovvero alle minacce di quest’ultima di farlo rientrare presso il reparto di provenienza, ove si fosse rifiutato di adempiere ai compiti che gli erano stati assegnati, posto che, come rilevato dalla corte di appello con logico argomentare, il trasferimento dell’imputato non era stato determinato esclusivamente da ragioni di salute legate a un esaurimento nervoso di cui era stato vittima (cfr. p. 21 della sentenza di appello) e d’a|tra parte resta del tutto inesplorato da parte del ricorrente il tema delle conseguenze in termini di gravità che un tale trasferimento avrebbe avuto sulla persona del G..
In questa prospettiva risulta infondata anche la doglianza di cui al primo motivo di ricorso.
Invero, come chiarito dall’orientamento da tempo dominante in sede di legittimità, stante l’eccezionalità dell’istituto processuale contemplato nell’art. 603 c.p.p., il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale può essere censurato in sede di legittimità solo quando risulti dimostrata l’esistenza, nel tessuto motivazionale che sorregge la decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità ricavabili dal testo del medesimo provvedimento (come previsto dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede di appello (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, 23/05/2013, n. 45647), lacune e manifeste illogicità che, nel caso in esame non appaiono configurabili, essendo l’affermazione di responsabilità dell’imputato fondata su di un puntuale esame dei dati acquisiti, ritenuto esaustivo ai fini dell’affermazione di responsabilità e insuscettibile di integrazioni istruttorie, operato dalla corte territoriale, che ha escluso la presenza di condotte coercitive in danno dell’imputato, di natura tale da escluderne il dolo (cfr. p. 22).
Manifestamente infondata appare la questione di diritto posta con il terzo motivo di ricorso, per la decisiva circostanza che, come ammesso dallo stesso ricorrente, nei casi denunciati i certificati erano già stati rilasciati dall’imputato con apposta la sua firma, ovviamente senza che egli avesse proceduto ad effettuare la visita richiesta, sicché l’utilizzazione di tali certificati da parte di terzi all’interno della struttura sanitaria di riferimento, non esclude la sua responsabilità (in questo senso, con riferimento a fatti di falsità ideologica in certificazioni amministrative, cfr. Sez. 6, n. 13315 del 08/02/2011, Rv. 249477).
Ne consegue l’inammissibilità del suddetto motivo, in quanto, come affermato dall’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, in tema d’impugnazioni, è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile “ab origine” per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio (cfr., ex plurímis, Sez. 3, n. 46588
del O3/10/2019, Rv. 277281).
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 14.3.2024.