Consiglio di Stato, Sez. II, 13 giugno 2019, n. 3952
MASSIMA
Consiglio di Stato, Sez. II, 13 giugno 2019, n. 3952
La consolidata giurisprudenza in materia di vincolo cimiteriale, esteso anche alle serre, ha chiarito che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici (v. Cass. civ., Sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26326);
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 2016, n. 949);
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, Sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5544; Cass. civ., Sez. I, 17 ottobre 2011, n. 2011; id., Sez. I, n. 26326 del 2016, cit.);
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quinto comma, norma che non presidia interessi privati e non può quindi legittimare interventi edilizi futuri su un’area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
e) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico – come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione – la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667; nonché id., 4 luglio 2014, n. 3410).
NORME CORRELATE
Art. 338 R.D. 27/7/1934, n. 1265
Pubblicato il 13/06/2019
N. 03952/2019REG.PROV.COLL.
N. 09638/2010 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9638 del 2010, proposto dalla signora Stefania G., in proprio e quale titolare dell’impresa individuale “<omissis>”, rappresentata e difesa dagli avvocati Emanuela Ghisi e Roberto Invernizzi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Giovanni Corbyons in Roma, via Maria Cristina, n. 2,
contro
– il Comune di Cassano Magnago, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Matteo Salvi, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Donella Resta in Roma, via Archimede n. 25/A;
– la Regione Lombardia, in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia – Sez. II – n. 1234/2010, resa tra le parti, concernente demolizione di opere edilizie e diniego di sanatoria.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Cassano Magnago;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 7 maggio 2019 il Consigliere Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Giovanni Corbyons, su delega dell’avvocato Roberto Invernizzi e l’avvocato Donatella Resta, su delega dell’avvocato Matteo Salvi;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La ricorrente ha impugnato con autonomi ricorsi innanzi al T.A.R. per la Lombardia il provvedimento prot. n. 21242 del 14 settembre 2007, con il quale è stata respinta un’istanza di sanatoria presentata in data 16 luglio 2007 riguardante quattro strutture da utilizzare per l’esercizio della propria attività florovivaistica, esercitata nel Comune di Cassano Magnago (ricorso n.r. 2554 del 2007) e la conseguente ordinanza ingiunzione a demolire n. 114 del 29 maggio 2008 (ricorso n.r. 1841/2008). La natura precaria del manufatto, mero “riparo stagionale” sussumibile al paradigma definitorio di cui all’art. 33, comma 2, lett. d), della l.r. Lombardia n. 12/2005, che qualifica(va) come attività edilizia libera le “coperture stagionali destinate a proteggere le colture ed i piccoli animali allevati all’aria aperta in pieno campo”, applicabile ratione temporis, ne avrebbe infatti legittimato la realizzazione sine titulo. Non sarebbe comunque ostativo il vincolo cimiteriale ex art. 338 del r.d. n. 1265/1934, del quale peraltro contesta l’estensione, né sussisterebbero altre preclusioni di natura urbanistica, in quanto il Piano regolatore cui fare riferimento collocava il terreno in zona a standard con vincolo da tempo decaduto e dunque passibile di usi agricoli, purché attuati mediante trasformazioni non irreversibili del suolo.
2. Il T.A.R. per la Lombardia, previa riunione dei due ricorsi per connessione oggettiva e soggettiva, li ha respinti, compensando le spese di lite. Le strutture di cui è causa, infatti, risultano prive sia del carattere di semplice “copertura” sia di quello di stagionalità richiesti dalla l.r. n. 12/2005. Il “vincolo cimiteriale”, cui pertanto vanno assoggettate, ha valenza di inedificabilità assoluta, prevalente su eventuali disposizioni difformi degli strumenti urbanistici generali. Da qui la ritenuta non necessità di scrutinare ulteriormente l’erroneo giudizio di insussistenza della doppia conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica necessaria ai fini del rilascio della richiesta di sanatoria, in quanto essendo “fondato su una pluralità di motivi autonomi fra loro, è sufficiente la legittimità di uno solo di questi per impedire l’annullamento giurisdizionale dell’atto stesso”.
3. L’interessata ha proposto appello ritenendo erronea la ricostruzione di fatto e di diritto operata dal giudice di prime cure e conseguentemente riproponendo in chiave critica gli originari motivi di doglianza.
In vista dell’udienza, le parti hanno prodotto memorie e memorie di replica per ribadire le proprie contrapposte prospettazioni.
L’appellante, in particolare, ha inteso rafforzare la propria tesi suggerendo una lettura teleologicamente orientata della previgente disciplina, alla luce degli sviluppi concettuali e giuridici della nozione di “serra” nella legislazione sopravvenuta: da qui il passaggio dalla contestazione come erronea della qualificazione in tali termini dell’intervento da parte del giudice di prime cure, alla sostanziale irrilevanza dello stesso, sostituito senza soluzione di continuità nell’argomentazione seguita a quello in precedenza enfaticamente invocato, per le asserite differenze ontologiche, di “riparo”.
Il Comune di Cassano Magnago insiste per la reiezione dell’appello e la conferma della sentenza del T.A.R. per la Lombardia.
4. All’udienza del 7 maggio 2019 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
5. Al fine di dirimere l’odierna controversia, il Collegio ritiene pregiudiziale delineare l’esatto perimetro in fatto e in diritto della stessa, individuando la cornice normativa delle cosiddette “<i>serre</i>”, o strutture similari comunque denominate, onde poi valutare la riconducibilità alla stessa della fattispecie concretamente in esame. In tale logica appare dunque condivisibile la scelta del Tribunale di anteporre alle altre, sovvertendo l’ordine dei motivi di gravame, la trattazione della corretta qualificazione giuridica delle strutture di cui è causa, che il Comune ha reputato essere “serre”, appunto, mentre la ricorrente voleva qualificare come “coperture stagionali”.
6. Il riferimento terminologico alle “<i>serre</i>” è stato introdotto nell’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001, rubricato “Attività edilizia libera”, dal d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito, con modificazioni, dalla l. 22 maggio 2010, n. 73, e successivamente conservato nel corpo della disposizione (attualmente, lett. e) allo scopo di chiarire definitivamente la non assoggettabilità a titoli edilizi dei manufatti riconducibili a tale tipologia purché “mobili stagionali”, ovvero “sprovviste di strutture in muratura, funzionali allo svolgimento dell’attività agricola”.
Rileva dunque il Collegio come l’elemento caratterizzante la diversificazione di regime giuridico è la “stagionalità” e la mancanza di ancoraggio al suolo, in ciò sostanzialmente riproponendo la dizione di cui all’invocato art. 33, secondo comma, lett. d), della richiamata l.r. n. 12/2005. Correttamente, dunque, per enfatizzare descrittivamente tale “stagionalità”, da intendersi necessariamente come permanenza limitata nel tempo, il Tribunale ha inteso porre l’accento sulla formulazione letterale della disposizione dell’epoca: la possibilità di utilizzo per ricovero di “piccoli animali allevati all’aria aperta e a pieno campo”, infatti, viene richiamata non tanto e non solo per evocare la ridotta dimensione degli stessi, quanto più propriamente per ricordarne la movibilità, difficilmente compatibile, nell’esemplificazione prospettata dal giudice di prima istanza, con una copertura destinata ad un allevamento bovino.
6. Allo scopo di rafforzare la propria ricostruzione dogmatica, la parte appellante aderisce alla definizione di “serra”, salvo poi rivendicare alle proprie strutture la richiesta “stagionalità”. Tale requisito, peraltro, risulta cristallizzato nelle disposizioni sopravvenute, che essa invoca allo scopo di illuminare retrospettivamente l’inquadramento della propria vicenda. Rileva tuttavia il Collegio come la necessaria non permanenza della copertura, in quanto, appunto, “stagionale”, via via ribadita dal legislatore, nulla aggiunge ad un concetto già consolidatosi nella giurisprudenza penale e amministrativa, al quale in nessun modo si attaglia la situazione concretamente ascrivibile alla ricorrente. Il tentativo, infatti, di collegare la permanenza della stessa agli eventi metereologici, e non ad alternanze temporali precostituite, senza peraltro dimostrare in alcun modo l’effettività della sua rimozione totale almeno in periodi estemporanei, non trova rispondenza alcuna neppure nelle richiamate disposizioni sopravvenute.
7. In attuazione della facoltà concessa alle Regioni di ampliare i casi di interventi di edilizia libera (art. 6, comma 6, lettera a), del d.P.R. n. 380/2001), la l.r. Lombardia 8 luglio 2014, n. 19, ha equiparato alle serre, quelle “tunnel a campata singola o multipla, sprovviste di opere in muratura, con struttura portante costituita da elementi modulari amovibili e coperture in film plastici rimosse stagionalmente, nonché le serre mobili destinate ad uso temporaneo”. La tipologia “a tunnel”, tuttavia, se da un lato consente di ampliare l’inclusione definitoria di alcuni manufatti, astrattamente già riconducibili alla stessa, egualmente non pretermette il ribadito richiamo alla “stagionalità”, ovvero, per quelle cosiddette “mobili”, alla temporaneità dell’uso.
La norma demanda alla Giunta regionale l’individuazione delle caratteristiche costruttive e delle condizioni da rispettare per l’installazione di dette strutture. La Giunta regionale ha provveduto con deliberazione 25 settembre 2017, senza tuttavia nulla aggiungere alla prospettata ricostruzione, se non, appunto, in termini descrittivi.
8. L’allegato A al d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, recante “Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata” alla voce A.10 contempla espressamente la “installazione di serre mobili stagionali sprovviste di strutture in muratura”. Infine con D.M. 2 marzo 2018 – non richiamato dall’appellante, ma cui la Sezione ritiene opportuno far cenno per completezza ricostruttiva – recante “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera, ai sensi dell’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222”, dopo aver riproposto la dizione dell’art. 6, lett. e), del T.U.E., ci si limita a chiarire che è attività edilizia libera sia l’installazione, che la riparazione, sostituzione o rinnovamento delle serre, purché stagionali, e che nel relativo concetto rientrano anche gli elementi di appoggio e/o ancoraggio.
9. Tutta la disciplina sopravvenuta, dunque, statale e regionale, non fa che replicare la distinzione già operata nella giurisprudenza amministrativa e penale, fra serre temporanee ed amovibili, da un lato, funzionali al mero svolgimento dell’attività agricola, e serre dotate di strutture murarie, dall’altro, destinate più che altro alla produzione a supporto dell’attività agricolo-commerciale, per le quali ultime soltanto si riteneva da sempre necessario un titolo edilizio (v. sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 24 aprile 2017, n. 1912, nonché, ex multis, Cass. pen., Sez. III, 22 novembre 2016, n. 49602).
10. Orbene, applicando le evidenziate coordinate ermeneutiche, normative e giurisprudenziali, alla fattispecie sub iudice, deve pervenirsi alla conclusione che le serre realizzate dall’odierna appellante non erano sussumibili nella tipologia delineata originariamente dall’art. 33, comma 2, l.r. n. 12/2005, di fatto trasfusa nell’art. 6, comma 1, lettera e), del d.P.R. n. 380/2001, e ribadita nella normativa successiva, anche regionale, in quanto ne risulta per tabulas la non stagionalità, peraltro per la presenza dei medesimi elementi di stabilità costruttiva che portano anche ad escluderne la precarietà.
Il discrimine tra manufatti permanenti e manufatti stagionali o comunque temporanei segna la necessità o meno del preventivo ottenimento del titolo abilitativo, giacché le serre destinate a colture protette con condizioni climatiche artificiali limitate a una sola parte dell’anno e quindi con copertura solo stagionale prescindono dal titolo. Non risultano in alcun modo avallabili altre accezioni di “stagionalità”, tali peraltro da legittimare perfino la permanenza in situ per l’intero arco dell’anno, laddove si manifestino condizioni climatiche avverse.
Nel caso di specie è rimasto provato che il manufatto presenta tutte le caratteristiche per essere qualificato come serra a copertura stabile: l’appellante, infatti, ammette una diversità di copertura, ma non dimostra mai la scopertura, tanto da tentare perfino di dequotare la valenza probatoria del sopralluogo del personale del Comune in data 3 agosto 2006 – dunque in piena stagione estiva – avuto riguardo a generiche notizie meteo ricavate da un sito specifico, ove peraltro si preannunciano “cambiamenti” (con ciò lasciando intendere che in precedenza il clima era favorevole) a far data dal 2 agosto 2006, laddove anche la documentazione fotografica allegata al sopralluogo non reca traccia di tale prospettata situazione ambientale stabilmente avversa. Esiti peraltro, sia detto per completezza, rimasti immutati e come tali riferiti e documentati nei successivi sopralluoghi in data 26 ottobre 2006, 12 aprile 2007 e 21 maggio 2008.
11. Risulta altresì provato che le quattro serre oggetto dei provvedimenti avversati non solo si contraddistinguono per dimensione, misurando ognuna metri 8 x 22,80, per una superficie di circa 180 metri quadrati ciascuna ed un totale di quasi 800 mq., ma anche per collegamento funzionale alla connessa attività di vendita dei prodotti coltivati: risulta dunque presente – ed incontestata – la presenza di fondamenta di calcestruzzo almeno su una parte limitata dell’area di interesse, ovvero di pavimentazione e tombinature (con relativi scarichi), di impianto di illuminazione interna ed esterna, di porte scorrevoli cementate al suolo e di pareti vetrate per la chiusura dei locali. Non è chi non veda come gli interventi nella loro complessità evidenzino la destinazione unitaria del complesso in maniera stabile all’attività esercitata e ne attestino la permanenza. In tale logica si colloca il riferimento che anche il T.A.R. per la Lombardia fa all’attività commerciale svolta dall’appellante, pur debitamente autorizzata: con esso non si intende traslare indebitamente la continuità di quest’ultima sulla conseguente stabilità delle modifiche del territorio, ma semplicemente sottolineare come la permanente funzionalizzazione al miglioramento dell’accessibilità e della fruizione delle aree anche da parte dei potenziali clienti, non possa che confermare la sostanziale stabilità degli assetti. I tentativi di minimizzare, con artifici dialettici, la fruibilità da parte di dipendenti e clienti, non tiene, infatti, conto della finalità di tale richiamo, ovvero desumere dalla stabile destinazione dell’area la stabilità del manufatto (sul punto, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 8 agosto 2014, n. 4229).
12. Per tutto quanto sopra, rileva la Sezione, il primo motivo di appello è da ritenersi infondato.
13. Egualmente infondato si presenta anche il motivo di appello con il quale si vuole affermare la compatibilità dell’intervento, quand’anche necessitante di permesso di costruire, con gli interessi e i valori che il cosiddetto vincolo cimiteriale di cui all’art. 338, comma 1, del r.d. n. 1265/1933 (T.U.L.S.) è chiamato a salvaguardare. Tale vincolo, infatti, si connota come di inedificabilità assoluta e conseguente inderogabilità, almeno per regola generale, dalla pianificazione urbanistica comunale (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. VI, 12 febbraio 2019, n. 1013; id., 15 ottobre 2018, n. 5911; id., Sez. IV, 6 ottobre 2017, n. 4656).
Dispone dunque il ridetto art. 338, comma 1, che: “I cimiteri devono essere collocati alla distanza di almeno 200 metri dal centro abitato. È vietato costruire intorno ai cimiteri nuovi edifici entro il raggio di 200 metri dal perimetro dell’impianto cimiteriale, quale risultante dagli strumenti urbanistici vigenti nel comune o, in difetto di essi, comunque quale esistente in fatto, salve le deroghe ed eccezioni previste dalla legge”. Il quinto comma a sua volta, nel testo da ultimo sostituito dall’art. 28, comma 1, lett. b), della legge n. 166/2002, aggiunge che: “Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici. La riduzione di cui al periodo precedente si applica con identica procedura anche per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre”.
La consolidata giurisprudenza sulla materia, dalla quale non è motivo di discostarsi, ha nello specifico chiarito che:
a) il vincolo cimiteriale determina una situazione di inedificabilità ex lege e integra una limitazione legale della proprietà a carattere assoluto, direttamente incidente sul valore del bene e non suscettibile di deroghe di fatto, tale da configurare in maniera obbiettiva e rispetto alla totalità dei soggetti il regime di appartenenza di una pluralità indifferenziata di immobili che si trovino in un particolare rapporto di vicinanza o contiguità con i suddetti beni pubblici (v. Cass. civ., Sez. I, 20 dicembre 2016, n. 26326);
b) il vincolo ha carattere assoluto e non consente in alcun modo l’allocazione sia di edifici, sia di opere incompatibili con il vincolo medesimo, in considerazione dei molteplici interessi pubblici che la fascia di rispetto intende tutelare, quali le esigenze di natura igienico sanitaria, la salvaguardia della peculiare sacralità che connota i luoghi destinati alla inumazione e alla sepoltura, il mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale (Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 2016, n. 949);
c) il vincolo, d’indole conformativa, è sganciato dalle esigenze immediate della pianificazione urbanistica, nel senso che esso si impone di per sé, con efficacia diretta, indipendentemente da qualsiasi recepimento in strumenti urbanistici, i quali non sono idonei, proprio per la loro natura, ad incidere sulla sua esistenza o sui suoi limiti (Cons. Stato, Sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5544; Cass. civ., Sez. I, 17 ottobre 2011, n. 2011; id., Sez. I, n. 26326 del 2016, cit.);
d) la situazione di inedificabilità prodotta dal vincolo è suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque solo per considerazioni di interesse pubblico, in presenza delle condizioni specificate nell’art. 338, quinto comma, norma che non presidia interessi privati e non può quindi legittimare interventi edilizi futuri su un’area indisponibile per ragioni di ordine igienico-sanitario, nonché per la sacralità dei luoghi di sepoltura;
e) il procedimento attivabile dai singoli proprietari all’interno della zona di rispetto è soltanto quello finalizzato agli interventi di cui al settimo comma dell’art. 338 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), mentre resta attivabile nel solo interesse pubblico – come valutato dal legislatore nell’elencazione, al quinto comma, delle opere ammissibili ai fini della riduzione – la procedura di riduzione della fascia inedificabile (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27 luglio 2015, n. 3667; nonché id., 4 luglio 2014, n. 3410).
Orbene, ritiene il Collegio che nella vicenda in esame da un lato manchi la prevista connotazione delle opere realizzate, per cui si verte nella fattispecie di vincolo assoluto di inedificabilità contemplato dal primo comma della disposizione; dall’altro non sussista l’interesse pubblico alla riduzione dell’area, per cui la relativa estensione deve essere confermata nei termini indicati dal legislatore (sul punto Cons. Stato, Sez. VI, 9 marzo 2016, n. 949).
14. Da quanto sopra, discende anche l’infondatezza dell’ulteriore motivo col quale si assume che il T.A.R. avrebbe dovuto disporre ex officio una più approfondita istruttoria per verificare se il Comune avesse “modulato” il vincolo di rispetto cimiteriale in sede di pianificazione urbanistica così da escludere che vi rientrasse l’area interessata dalle serre dell’appellante. Il ricordato carattere assoluto del vincolo e il suo imporsi anche sulle eventuali diverse previsioni degli strumenti urbanistici rende ragione dell’adeguatezza e sufficienza della motivazione con cui il primo giudice, sulla scorta delle risultanze in atti, ha ritenuto mantenuta l’estensione di legge dei 200 metri, non essendo stato dimostrato l’avvenuto intervento di modifiche con la procedura “rafforzata” con cui il Comune, sussistendone i presupposti, avrebbe potuto incidere sulla fascia di rispetto.
15. L’integrale reiezione dell’appello, per le ragioni testé evidenziate, esime dall’esame delle ulteriori censure di prime cure qui riproposte. In particolare, il negato contrasto dell’intervento con il nuovo P.G.T. nonché l’illegittimità dello stesso P.G.T. in parte qua, quale motivazione autonoma e distinta a sostegno del diniego di sanatoria ex art. 36 del d.P.R. n. 380/2001, si palesa irrilevante, potendosi sul punto convenire con quanto statuito dal T.A.R.: quand’anche, infatti, il relativo motivo di doglianza venisse accolto, non gioverebbe all’appellante, stante la legittimità dell’altra motivazione ostativa afferente all’incompatibilità dell’opera con il vincolo di rispetto cimiteriale.
16. Per tutto quanto sopra, l’appello va respinto e, per l’effetto, va confermata la sentenza di primo grado.
La regolazione delle spese di lite segue il principio della soccombenza e le medesime vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez. II – definitivamente pronunciando sull’appello n. 9638/2010, come in epigrafe proposto, lo respinge e per l’effetto conferma la sentenza impugnata.
Condanna l’appellante al pagamento, in favore del Comune di Cassano Magnago, delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 3.000,00 (euro tremila/00) oltre agli accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Raffaele Greco, Presidente
Giancarlo Luttazi, Consigliere
Giovanni Sabbato, Consigliere
Antonella Manzione, Consigliere, Estensore
Cecilia Altavista, Consigliere
L’ESTENSORE (Antonella Manzione)
IL PRESIDENTE (Raffaele Greco)
IL SEGRETARIO