Cassazione civile, Sez. II, 27 febbraio 1997, n. 1806

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Massima

Testo

Riferimenti: Arch. civ. 1998, 72 nota (Santarsiere)

Massima:
Cassazione civile, Sez. II, 27 febbraio 1997, n. 1806
Ogni negozio istitutivo di fondazione, ai fini della sua validità ed efficacia, deve contenere, ai sensi dell’art. 16 c.c., la determinazione, operata dal fondatore e da costui non demandabile a terzi, dello scopo, non generico ed imprecisato, assegnato all’ente erigendo. Tale principio trova applicazione anche nell’ipotesi di fondazione disposta con testamento, mentre non è causa di invalidità della volontà testamentaria la mancanza di una normazione inerente al governo dell’ente, poiché le disposizioni al riguardo possono essere dettate dalla autorità amministrativa ai sensi dell’art. 2, comma 2, disp. att. c.c., oppure da persona all’uopo designata dal testatore. Inoltre, quanto al requisito relativo allo scopo, devono riconoscersi sufficienti connotati di specificità alla attribuzione alla istituenda fondazione di “fini religiosi”, quando sia inequivocabilmente individuata la natura della religione e del culto che il “de cuius” abbia inteso onorare (come nel caso di specie, in cui è stata demandata ad un ecclesiastico cattolico la strutturazione dell’erigenda persona giuridica, il legato a favore della quale è stato onerato della “cura spirituale” delle anime del testatore, della moglie e dei genitori e della manutenzione delle loro tombe).

Testo completo:
Cassazione civile, Sez. II, 27 febbraio 1997, n. 1806
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Aldo MARCONI Presidente
” Mario SPADONE Consigliere
” Vincenzo CALFAPIETRA ”
” Francesco CRISTARELLA ORESTANO ”
” Giovanni PAOLINI Rel. ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da
POLLICINO VITTORIA, POLLICINO MARIA BERNADETTE,
elettivamente domiciliate in Roma P.zza Adriana 5, presso lo studio
dell’avvocato Messina, difese dall’avvocato Augusto Pagano, giusta
delega in atti;
Ricorrenti
contro
FONDAZIONE DI CULTO “GIOVANNI E VIOLANTE POLLICINO”, in
persona del suo legale rappresentante pro-tempore; elettivamente
domiciliata in Roma Via Acherusio 6, presso lo studio dell’avvocato
L. Tripodo, difesa dall’avvocato Carmelo Fortino, giusta delega in
atti;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 43-95 della Corte d’Appello di Messina,
depositata il 07-02-95;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
11-11-96 dal relatore Consigliere Dott. Giovanni Paolini;
udito l’Avvocato Augusto Pagano difensore delle ricorrenti che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Carmelo Fortino difensore della resistente che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Alessandro Carnevali che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, con atto del 31 maggio, 1 e 2 giugno 1983, citarono dinanzi al Tribunale di Messina, oltre che la Fondazione “Carrozza S. Leonardo” e l’arcivescovo “pro-tempore” del capoluogo peloritano, la Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino” : premesso di essere eredi “ex lege”, accettanti con beneficio di inventario, dell’Avv. Francesco Pollicino, deceduto il 12 maggio 1976, il quale aveva disposto della maggior parte dei suoi beni con testamento olografo completato da vari condicilli pubblicati il 24 maggio 1976, deducendo emergere dalla lettura delle schede testamentarie in questione che il “de cuius” aveva inteso destinare la porzione più considerevole del proprio patrimonio dell’Arcivescovo di Messina e di costituende fondazioni, sostennero essere inficiate da nullità assoluta ed insanabile alcune delle disposizioni testamentarie in argomento e, in particolare, quella, di cui al codicillo datato 30 luglio 1972, con la quale tutti i beni pervenuti al testatore per eredità materna erano stati destinati all’arcivescovo perché costui, a sua scelta, promuovesse la creazione di una fondazione a carattere religioso da intitolare a Giovanni e Violante Pollicino ed avente ad oggetto la cura spirituale delle anime del testatore stesso, dei genitori e della moglie e la cura e la conservazione delle loro sepolture; rivelarsi invalida tale disposizione sia perché integrante una sostituzione fedecommissaria vietata, sia in ragione dell’irrilevanza ai fini dell’utilità sociale dell’istituenda fondazione; addussero che, peraltro, la fondazione di cui trattasi, non essendo stata nel possesso dei beni ereditari al momento dell’apertura della successione, avrebbe dovuto accettare l’eredità con beneficio di inventario entro quaranta giorni dalla sua costituzione, avvenuta per atto pubblico del 4 aprile 1977, e, comunque, entro quaranta giorni dalla consegna dei beni, e che, non essendo stato adempiuto l’onere in discorso, l’ente era decaduto dalla sua qualità di erede, sicché per i beni destinati alla sua dotazione doveva aprirsi la successione legittima; allegarono che, in ogni caso, così la fondazione predetta, come gli altri convenuti, nella loro veste di eredi, dovevano essere ritenuti obbligati a concorrere nel pagamento dei debiti ereditari, denunciarono avere l’esecutore testamentario erogato ingenti somme, destinate dal testatore al pagamento dell’imposta di successione, per la gestione dei beni consegnati alle fondazioni, sottraendole alle attività ereditarie, e dover tali somme essere restituire alle eredi legittime, quanto meno a titolo di indebito arricchimento; chiesero, quindi, in primo luogo, dichiararsi aperta in favore di esse istanti la successione legittima di Francesco Pollicino sui beni non contemplati nel testamento e su quelli oggetto delle disposizioni testamentarie come sopra contestate, in subordine, dichiararsi le controparti decadute dal diritto di accertare l’eredità, condannando chi di ragione alla restituzione dei beni ereditari illegittimamente posseduti, al rendiconto e nei danni, in ulteriore subordine, e per il caso di riscontrata regolarità delle vocazioni ereditarie revocate in discussione, dichiararsi le controparti tenute a concorrere al pagamento delle passività ereditarie e a rimborsare quanto da loro erogato per detto titolo, condannarsi, comunque, le fondazioni convenute a restituire le somme erogate dall’esecutore testamentario per la gestione dei beni ad esse consegnati.
Il tribunale, con sentenza del 9 ottobre 1985, rigettò le pretese attoree, da queste assolvendo tutti e tre i convenuti, e condannò Vittoria e Maria Bernadette Pollicino nelle spese processuali.
Sui gravami, rispettivamente, principale di Vittorio e Maria Bernadette Pollicino e incidentale, sulla liquidazione delle spese attribuitale, della Fondazione “Carrozza S. Leonardo”, la Corte d’appello di Messina, con sentenza del 7 febbraio 1995, resa, nella mancata contestazione dell’assoluzione dalle domande dell’Arcivescovo messinese sanzionata in prime cure, nel contraddittorio dell’appellata Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino”, disattesa la prima impugnazione ed accolta la seconda, confermò la pronuncia del tribunale sul merito della vertenza.
La corte distrettuale, per quanto può interessare nel presente giudizio di legittimità, motivò la decisione osservando, in primo luogo, non potersi ravvisare nulla la disposizione testamentaria recante attribuzione di beni all’ente attuale controricorrente in ragione dell’asserita indeterminatezza del soggetto onorato, risultando indicate con precisione nel contestato atto di ultime volontà così la denominazione, come la sede di detto soggetto; essere da escludere, altresì, la prospettata invalidità della disposizione in argomento da correlarsi alla, accampata, mancata determinazione nel testamento dell’oggetto dell’ente suindicato, per essere stata da “de cuius” demandata siffatta determinazione al c.d.
“arbitrium boni viri” dell’Arcivescovo di Messina, il quale l’aveva operata nel rispetto dei limiti del compito affidatogli; non rilevare, d’altronde, ai fini della riscontrabilità della denunciata nullità della ripetuta clausola del testamento il dato che l’ente onorato, da tenere per avente finalità di pubblico interesse perché costituito a fini religiosi, non risultasse costituito al momento dell’apertura della successione di cui trattasi, per essere sufficiente, sotto il profilo considerato, la sua istituzione con il testamento (dovendo ravvisarsi un onere nell’affidamento allo stesso della cura delle anime e delle sepolture del testatore e dei di lui congiunti); dover essere qualificata l’attribuzione patrimoniale in discussione, non già designazione di erede ma, assegnazione di legato e dover essere esclusa, perciò, ogni responsabilità dell’ente onorato per i debiti ereditari; doversi avere, infine, per assorbite, in ragione della riconosciuta veste di legatario dell’ente attuale controricorrente, tutte le questioni sollevate dalle appellanti principali sunnominate circa la decadenza della controparte dal diritto di accettare l’eredità, la necessità dell’acquisto della personalità per tale accettazione (oltre che circa l’obbligo della medesima di assumere, in quanto erede, le passività ereditarie).
Vittoria e Maria Bernadette Pollicino ricorrono, con quattro, articolati, motivi, per la cassazione della suindicata sentenza di secondo grado, notificata l’1 marzo 1995.
La Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino”, nei cui soli confronti il gravame risulta prodotto, resiste al ricorso, notificatole il 20 aprile 1995, con controricorso del 29 maggio 1995.
Così le ricorrenti, come la controricorrente hanno depositato memoria.
DIRITTO
1) – Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, agendo nella professata, ed incontestata, veste di eredi “ex lege di Francesco Pollicino, hanno introdotto una domanda con la quale hanno chiesto dichiararsi nulla la disposizione del testamento del loro sunnominato autore recante assegnazione di alcuni beni compresi nell’asse patrimoniale dal medesimo relitto – è, più precisamente, di tutti i cespiti pervenuti al testatore per eredità materna – alla Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino”, attuale controricorrente: per suffragare la pretesa, hanno dedotto, innanzi tutto, dover essere ravvisata invalida la contestata clausola testamentaria sia perché contenente attribuzione di beni in favore di un ente non ancora esistente, neppure di fatto, nel momento dell’apertura della successione, sia in ragione della mancata identificazione, e della non identificabilità, alla stregua del tenore dell’atto di ultime volontà revocato in discussione, dell’ente con la stessa onorato.
La Corte d’appello di Messina, con la sentenza qui impugnata, ha sanzionato la reiezione dell’istanza in tali termini azionata rilevando la infondatezza degli assunti come sopra articolati per supportarla: ha evidenziato, al riguardo, da un lato, doversi considerare legittime e valide, per una consolidata giurisprudenza, le disposizioni testamentarie contemplanti lasciti in favore di enti ancora non esistenti nel tempo dell’apertura della successione ed istituti con il testamento recante attribuzioni in loro favore, e, dall’altro, risultare nella fattispecie l’ente onorato del lascito in argomento puntualmente identificato nel testamento in controversia, contenendo questo l’indicazione precisa delle relative denominazione e sede.
Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, con i primi due ordini di censure enucleabili dal primo motivo di ricorso, inteso, nel suo insieme, a denunciare la ravvisabilità nella sentenza impugnata di “violazione e falsa applicazione degli artt. 628, 632, 600, 16, 14 e 1362 e ss. c.c. (violazione e falsa applicazione di norme di diritto – omessa insufficiente e contraddittoria motivazione art. 360 n. 3 e 5)”, deducono che, pronunciando nei termini illustrati, la corte distrettuale avrebbe reso una decisione erronea perché non compatibile con la normazione desumibile degli artt. 600, 628 e 632 cod. civ., la quale, a loro dire, nel prevedere la possibilità di disposizioni testamentarie a favore di enti non riconosciuti “sottende(rebbe)”, però, l’esistenza dell’ente onorato al momento dell’apertura della successione, e perché ancorata all’inaccettabile presupposto della sufficienza dell’indicazione della denominazione e della sede dell’ente beneficiario a consentire l’identificazione di questo nella mancanza nel testamento in discussione di ogni precisazione in ordine allo scopo dell’ente medesimo e di ogni fissazione di parametri atti a identificare “il tipo di fondazione a carattere religioso” dal “de cuius” voluta istituire.
Le doglianze non hanno fondamento.
A) – Il vigente ordinamento giuscivilistico prevede espressamente l’ammissibilità e, quindi, l’efficacia e la liceità di “testamenti con i quali…. si fanno…. lasciti in favore di enti da istituire” (art. 3, comma 1, disp. att. cod. civ.), e, alla luce del dato normativo in questione, si rivela corretto e meritevole di conferma l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità per il quale destinatari delle disposizioni testamentarie possono essere anche enti non esistenti di fatto e da istituire secondo le prescrizioni del testatore, eventualmente, con le modalità da lui indicate da un terzo (cfr., espressamente “in terminis”, le risalenti Cass. Sez. II civ., sent. n. 2850 del 28.7.1969, id. Sez. I civ., sent. n. 1427 del 15.4.1975, le cui enunciazioni di principio, mai smentite da arresti successivi, hanno trovato implicito, ma inequivocabile, riscontro nella recente id. Sez. II civ., sent. n. 243 del 10.1.1995).
B) – La documentazione e l’indicazione della relativa localizzazione territoriale (sede) sono, di regola, elementi più che sufficienti a consentire la precisa ed incontrovertibile individuazione di un ente.
Del tutto ortodossa si appalesa, pertanto, la declaratoria del giudice del merito che ha escluso la ravvisabilità di profili di invalidità della qui contestata clausola testamentaria da correlarsi alle, accampate, mancata individuazione e non individuabilità del destinatario del lascito in essa previsto, nell’acquisito, indiscusso, accertamento del fatto che la disposizione di cui trattasi contiene una designazione nominativa dell’ente beneficiario e l’indicazione della sua sede.
2) – Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, in secondo luogo hanno raccordato l’istanza di cui al paragrafo precedente all’asserzione che la clausola del testamento del loro dante causa, Francesco Pollicino, come sopra revocata in controversia dovrebbe essere ritenuta nulla perché recante lascito in favore di una fondazione, erigenda, a loro dire, non suscettibile di esatta individuazione in ragione ella mancanza nell’atto di ultime volontà integrante il titolo della relativa istituzione di qualsiasi determinazione dell’”oggetto” dell’ente, nonché del fatto che la determinazione considerata risulterebbe dall’atto cennato indebitamente rimessa alla scelta, assunta, totalmente discrezionale di un terzo, e cioè dell’Arcivescovo di Messina; hanno soggiunto, al riguardo, avere il “de cuius” assegnato alla fondazione in discorso uno scopo, e cioè quello della “cura spirituale dell’anima sua, della moglie e dei genitori” e della “cura e conservazione delle relative sepolture” inidoneo a giustificarne la costituzione perché “irrilevante ai fini della utilità generale”.
La Corte d’appello di Messina, con la sentenza impugnata, sanzionante, giusta quanto evidenziato, la reiezione della domanda di cui trattasi, ha ravvisato destituiti di fondamento gli assunti nell’esposta guisa prospettati dalle attuali ricorrenti a sostegno delle azionate ragioni considerando doversi escludere il dedotto profilo di nullità della clausola testamentaria in discorso perché “non può ritenersi che la determinazione dell’oggetto dell’ente con la clausola stessa beneficiato” “sia stata rimessa al mero arbitrio dell’Arcivescovo”, risultando, viceversa, dall’atto di ultime volontà che “il testatore ha delineato con compiutezza le caratteristiche dell’ente (denominazione, sede e carattere religioso), per cui l’operato dell’Arcivescovo è rimasto vincolato all’esecuzione di precise direttive”, estrinsecandosi come espressione, non di “mero arbitrio” ma, di “quell’arbitrium boni viri che ricorre quando il terzo debba eseguire preordinati criteri e parametri e che non determina alcuna nullità”; ed altresì emerge dal tenore e dalla “formulazione sintattica” della disposizione in parola aver costituito l’affidamento all’ente onorato della “cura spirituale” delle anime del “de cuius” e dei suoi congiunti e della conservazione delle rispettive tombe, non già lo scopo dell’ente medesimo ma, un onere apposto al lascito, identificandosi, invece, lo scopo dell’istituita fondazione in “finalità religiose…. non prive per loro natura di utilità generale”.
Vittoria e Maria Bernadette Pollicino insorgono contro la pronuncia così resa dalla corte territoriale, da un lato, con il terzo ordine di censure sviluppato nel ripetuto primo motivo di gravame, e, dall’altro, con il secondo mezzo di ricorso, inteso a denunciare la riscontrabilità nella sentenza impugnata di “violazione e falsa applicazione degli artt. 690 c.c. e 1362 e ss. c.c. (violazione e falsa applicazione di norme di diritto – omessa insufficiente e contraddittoria motivazione art. 360 n. 3 e 5)”, in buona sostanza, prospettando, che, contrariamente a quanto ritenuto da detta corte, la clausola testamentaria contestata “non indica alcun elemento essenziale, al di là della cura delle anime e delle sepolture, lasciando interamente al mero arbitrio dell’Arcivescovo il tipo di ente religioso, lo scopo (di natura contemplativa o pratica) e quant’altro possa individuare un ente rispetto ad un altro in quella infinita varietà di enti di culto che esistono e operano nel mondo”; che il giudice del merito avrebbe “dimenticato che l’ente non è stato costituito dal testatore” e che, invece, costui “ha assegnato i beni all’Arcivescovo perché costituisse una fondazione a carattere religioso con nome e sede già…. determinati” e avrebbe finito per “sostituire alla vera e propria destinataria della disposizione testamentaria e cioè una fondazione del tutto indeterminata la sola vuota etichetta del suo nome e della sua sede”, e ciò per non aver tenuto conto del dato che una futura persona giuridica resta identificabile essenzialmente avendo riguardo al suo scopo; che la corte distrettuale non avrebbe avvertito che la clausola testamentaria di cui trattasi “si pone in contrasto con l’art. 632 c.c. che ne sanziona la nullità quando siano lasciate al mero arbitrio dell’onerato o di un terzo la determinazione dell’oggetto”, e che “nella specie è accaduto puntualmente quel che la norma in esame vuole evitare che succeda, la ratio della norma è infatti che se fosse consentito di rimettere al mero arbitrio dell’onerato l’oggetto della disposizione (in questo caso oggetto è la natura della fondazione) non solo viene meno la personalità dell’ente ma anche l’onerato può agevolmente vanificare il legato con una prestazione simbolica e fittizia”; che la corte messinese avrebbe omesso di rilevare che la “fondazione religiosa (controricorrente) non rispetta altro che nella mera forma le disposizioni data dal testatore” appalesandosi “diretta in via pressoché esclusiva a provvedere alla manutenzione della Basilica ed al concorso alle spese per la Basilica stessa”, mentre i beni testamentariamente assegnatile “solo marginalmente sono adibiti” alle finalità di cura d’anime e di conservazione di tombe volute perseguire dal “de cuius”; che, comunque, la corte suindicata avrebbe arbitrariamente ritenuto, in contrasto con gli elementi di giudizio ricavabili dalla lettera e dallo spirito della clausola testamentaria in argomento, che lo scopo assegnato dal “de cuius” all’istituita fondazione fosse da identificare in, imprecisate, finalità religiose, e non esclusivamente nella cura delle anime e nella conservazione delle sepolture sue, della moglie e dei genitori, incongruamente ravvisando in tali cura e conservazione un onere modale apposto al lascito contestato, ed avrebbe, inoltre, omesso di considerare che lo scopo in tali sensi attribuito all’ente, siccome privo di rilevanza sotto il profilo della utilità pubblica, andrebbe ravvisato insuscettibile di integrare il presupposto dell’istituzione di una fondazione “con la ineluttabile conseguenza…. della nullità assoluta ed insanabile” della più volte menzionata disposizione testamentaria.
Le doglianze, connesse, e, perciò, da prendere in esame insieme, si rivelano, ad avviso del collegio totalmente, infondate.
A) – La declaratoria della corte distrettuale circa il significato e la portata della clausola del testamento di Francesco Pollicino recante la istituzione della fondazione attuale controricorrente, e, in particolare, circa l’individuazione dello scopo di questa in “finalità religiose”, e la natura di modo, o onere, della disposizione con la quale il testatore sunnominato demandò all’ente istituito la cura delle anime e la conservazione delle sepolture sue e di suoi congiunti integra, all’evidenza, la risultante dell’interpretazione del negozio di ultime volontà in controversia e, quindi, di un accertamento di fatto, da avere, in quanto tale, per sindacabile in cassazione, a mente dell’art. 360, comma 1 n. 5, cod. proc. civ., con riguardo alla sufficienza ed alla non contraddittorietà della motivazione che lo sorregge, e, à sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, cod. proc. civ., sotto il profilo della verifica della rispondenza dell’operazione interpretativa ai canoni legali di ermeneutica di cui agli artt. da 1362 a 1371 cod. civ.
Ciò posto, va puntualizzato che le statuizioni del giudice del merito concernenti interpretazione di negozi restano utilmente censurabili in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione solo con critiche che si risolvano nella prospettazione della riscontrabilità nell’”iter” logico percorso da quel giudice per pervenire alla decisione contestata di incongruenze e-o inadeguatezze intrinseche, e non costituiscano mera denuncia di una asserita, erroneità sostanziale della declaratoria impugnata, o nella allegazione della possibilità di attribuire al negozio in discussione portata e significato diversi da quelli in detta declaratoria ritenuti; che le statuizioni considerate, d’altronde, possono essere ravvisate validamente messe in discussione in cassazione sotto il profilo della verifica della conformità alle norme di ermeneutica contrattuale quando la parte ricorrente non si limiti ad accampare genericamente il mancato rispetto delle norme in argomento, ed articoli, invece, critiche specifiche, contenenti l’indicazione precisa dei canoni interpretativi legali addotti non osservati e dei punti e dei modi in cui il giudice del merito, a suo avviso, si sarebbe da tali canoni discostato.
Orbene, nella fattispecie, Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, in presenza di una pronuncia della corte distrettuale che ha affermato desumersi dal testo della clausola testamentaria in controversia che con tale disposizione il loro autore, Francesco Pollicino, istituì una fondazione avente come scopo “finalità religiose” e dispose in favore della stessa un lascito correlato ad un modo riguardante la “cura spirituale” della anima sua, della moglie e dei genitori e la conservazione delle tombe propria e dei congiunti suindicati, sostengono, in definitiva, rivelarsi tale pronuncia non correttamente motivata e frutto di una non ortodossa applicazione di canoni legali di ermeneutica perché, a loro dire, il tenore del testamento di cui trattasi evidenzierebbe l’intento del “de cuius” di dar vita ad un ente avente come unico scopo la “cura spirituale” della anime sue e di alcuni congiunti e la manutenzione delle relative tombe, e la non riducibilità alla nozione di modo della prescrizione recante l’assegnazione al costituito ente dei compiti inerenti alle cennate “cura d’anime e conservazione di sepolcri.
Le deduzioni considerate, per come reso palese dal loro contenuto, non integrano critica della logicità e della compiutezza del ragionamento attraverso il quale il giudice del merito è giunto alla decisione contestata, e non si sviluppano nella prospettazione di specifici errori commessi da detto giudice nell’utilizzazione di uno o più fra i canoni ermeneutici legali, ma si concretano, fondamentalmente, nella allegazione della tesi che l’interpretazione da darsi all’atto di ultime volontà oggetto della vertenza dovrebbe essere diversa da quella accolta nella sentenza impugnata, ed in una non sufficientemente specifica denuncia di mancato rispetto delle norme disciplinanti l’interpretazione dei negozi: costituiscono, perciò, censure da ritenere – o perché attinenti a “quaestio facti” o per difetto del prescritto requisito della specificità – non utilmente dedotte nella presente sede alla stregua del principio dianzi enunciato.
B) – I rilievi più sopra esposti, comportando l’irretrattabilità dell’accertamento della corte territoriale in ordine alla identificazione nei “fini religiosi”, e non nella cura d’anime e nella conservazione di tombe, dello scopo dell’ente controricorrente, travolgono, rendendole priva di valenza, le censure con le quali Vittoria e Maria Bernadette Pollicino hanno accampato, ed accampano, non poter integrare le cennate cura e conservazione scopo suscettibile di legittimare la costituzione di una fondazione.
C) – Le doglianze delle ricorrenti relative al non corretto (“fittizio e simbolico”) espletamento da parte della Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino” dei compiti di “cura spirituale” di anime e di “conservazione di sepolture” come sopra testamentariamente affidatile non rilevano, non avendo riguardo la fattispecie a vertenza in tema di adempimento di onere, di cui all’art. 648 cod. civ.
D) – Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, giusta quanto reiteratamente posto in risalto, hanno revocato in discussione la validità della clausola del testamento del loro autore sunnominato recante l’istituzione della Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino” ed attribuzione alla stessa del contestato lascito modale, deducendo dover essere ravvisata nulla la disposizione testamentaria considerata siccome rivelantesi intesa alla creazione di una fondazione della quale il testatore non ha stabilito né lo scopo vero, né la struttura organizzativa, demandando la relativa determinazione alla scelta, assunta totalmente libera ed arbitraria, di un terzo.
L’asserto così prospettato, evidentemente diretto a dedurre l’assoluta inettitudine a produrre effetti del negozio di fondazione sotteso alla clausola testamentaria di cui trattasi e, quindi, a prospettare l’inesistenza del presupposto principe della venuta in essere dell’ente attuale controricorrente e dell’acquisto da parte dello stesso della capacità di essere destinatario di lasciti nel quadro di successioni “mortis causa”, è stato disatteso dalla sentenza impugnata, come detto, in base al rilievo che “il testatore ha delineato con compiutezza le caratteristiche dell’ente (denominazione, sede e carattere religioso)”, manifestando la volontà di creare una fondazione con finalità religiose e demandando ad un terzo – l’Arcivescovo di Messina – il compito di dare concreta attuazione alla volontà da lui così espressa e di creare le struttura dell’istituita fondazione nel solco di direttive, ravvisate, adeguatamente particolareggiate all’uopo impartitegli.
Vittoria e Maria Bernadette Pollicino censurano la pronuncia resa sul tema della corte territoriale, nella sostanza, deducendo che il cennato negozio di fondazione avrebbe dovuto essere, e andrebbe, ravvisato invalido per non recare l’indicazione dello scopo dell’ente istituito, o, quanto meno, per risultare in esso detto scopo indicato in termini assolutamente genetici e tali da far presumere che il testatore, in realtà, abbia voluto demandare la concreta scelta delle finalità dell’ente creato ad un terzo, l’Arcivescovo di Messina, insieme all’incarico di strutturare la relativa organizzazione.
Anche la così articolata doglianza, ancorata dalle ricorrenti a riferimenti normativi di molto dubbia pertinenza, a parere del collegio, è del tutto immeritevole di ingresso.
Giova evidenziare, in proposito, che ogni negozio istitutivo di fondazione, per essere valido e produttivo di effetti, deve imprescindibilmente contenere, fra l’altro, la determinazione, operata direttamente dal fondatore e da costui non demandabile a terzi, dello scopo assegnato all’ente erigendo (cfr., sul tema, Cass.
Sez. II civ., sent. n. 1975 del 15.6.1953), essendo indispensabile, ai fini della validità del negozio e, quindi, nella sua idoneità a raggiungere il suo obiettivo costitutivo, che alla creata fondazione venga assegnato un fine non generico ed imprecisato (cfr. “in terminis”, Cons. Stato Sez. II n. 1228-78 del 27.7.1979, id., n. 257-80 del 16.4.1980).
Nessun profilo di invalidità dell’atto di cui trattasi, viceversa, è correlabile alla mancanza in esso di una normazione inerente al governo dell’ente, ben potendo le disposizioni al riguardo essere dettate dalla autorità amministrativa à sensi dell’art. 2, comma 2, disp. att. cod. civ. (cfr., in tal senso, Cass.
Sez. II civ., sent. n. 1975 del 1953, prec. cit.), o, “a fortiori”, da persona all’uopo designata dal fondatore.
Alla stregua dei principi così enunciati, va ravvisata senz’altro ortodossa nel “dictum”, e deve essere tenuta ferma, previa, per quanto di ragione, revisione della relativa motivazione, la pronuncia della corte distrettuale che ha escluso la riscontrabilità nel negozio costitutivo della fondazione controricorrente di vizi dipendenti dalla mancanza nell’atto di prescrizioni relative al governo dell’ente.
Secondo il collegio, però, deve essere ritenuta conforme al diritto, e più precisamente al dettato dell’art. 16 cod. civ., anche la declaratoria della sentenza contestata recante affermazione della validità del negozio di fondazione nell’intervenuta assegnazione all’ente istituito di “fini religiosi”, a tali fini dovendosi riconoscere, sempre ad avviso del collegio, sufficienti connotati di specificità (soprattutto in correlazione con il dato che, essendo stata demandata la strutturazione dell’erigenda persona giuridica ad un presule cattolico, deve ritenersi inequivocabilmente individuata la natura della religione e del culto che il “de cuius” ha inteso onorare).
3) – Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, insieme alla domanda, principale, di cui si è trattato nei paragrafi precedenti, hanno introdotto una pretesa, subordinata, volta a far dichiarare correlarsi il lascito come sopra testamentariamente disposto dal loro più volte nominato autore in favore della Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino” ad una vera e propria designazione di erede, e non già alla attribuzione di un legato, ed a far accertare, quindi, la sussistenza di una corresponsabilità dell’ente odierno controricorrente in ordine alle passività ereditarie: hanno sostenuto, per supportare l’istanza, desumersi l’attribuibilità alla controparte della qualità di erede, e non di legataria, dal tenore letterale del testamento in controversia e dal fatto che con questo risulta alla medesima destinata una porzione del patrimonio del “de cuius” rappresentata da una “universitas bonorum” a lui pervenuta nel quadro della successione “mortis causa” della madre.
La Corte di appello di Messina, con la sentenza qui impugnata, ha sanzionato la reiezione anche della istanza in argomento, rilevando che “dal complesso delle disposizioni testamentarie redatte” da Francesco Pollicino “fino all’ultimo codicillo del 22 agosto 1973 non emerge che le attribuzioni patrimoniali a favore” della fondazione resistente “possano integrare l’ipotesi della istituzione di erede ex re certa, di cui all’art. 588 II comma c.c., poiché non è dato desumere che il de cuius abbia voluto attribuire” all’ente suddetto “i beni come quota del suo patrimonio”; che, a prescindere dall’”espressione o denominazione usata dal testatore, le disposizioni testamentarie sono a titolo universale e attribuiscono la qualità di erede, se comprendono l’universalità o una quota dei beni dello stesso, altrimenti sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario”, non essendo sufficiente a configurare una vocazione ereditaria il lascito di un complesso di beni, “occorrendo l’ulteriore dimostrazione che il testatore ha considerato” quel compendio “come quota ereditaria”; che deve tenersi per non rilevante, ai fini in discorso, il dato inerente alla riscontrata assegnazione alla Fondazione di culto “Giovani e Violante Pollicino” di “tutto il complesso di beni personali del testatore in S. Stefano Medio, S. Stefano Briga e S. Margherita” per avere la giurisprudenza di legittimità affermato che “l’istituzione di erede non si desume dal fatto che l’oggetto del lascito rappresenta il residuo del patrimonio del testatore, quando non si possa agevolmente stabilire un rapporto di quota tra le precedenti disposizioni a quanto costituisce oggetto dell’attribuzione testamentaria”; che, nella fattispecie, contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, anche per la mancanza nel contestato atto di ultime volontà, redatto da un avvocato, conoscitore della terminologia giuridica, “di una chiara dizione nel senso della istituzione di erede” della fondazione, non risultò “da nessun elemento che il testatore abbia voluto assegnare” all’ente creato “una quota del patrimonio con riferimento alla sua universalità”, e devesi desumere, invece, dal tenore dell’atto che intendimento del “de cuius” era stato quello di assegnare alla fondazione beneficiata una attribuzione patrimoniale a titolo particolare, destinata a rappresentare “lo strumento necessario per l’attuazione del fine” propostole, e non suscettibile, perciò, “di concretare di certo una chiamata dell’eredità”, essendo “concettualmente difficile di ravvisare una chiamata all’eredità nella destinazione di beni ad uno scopo, realizzandosi di norma tale finalità a mezzo di legati”.
Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, con il terzo mezzo di ricorso, deducono che, così pronunciando, la corte territoriale sarebbe incorsa in “violazione e falsa applicazione degli artt. 588 c.c. e 1362 e ss. c.c. (violazione o falsa applicazione di norme di diritto – omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione art. 360 n. 3 e 5)”: più specificamente, sulla premessa che a mente dell’art. 588 cod. civ., le disposizioni testamentarie comportano, rispettivamente, vocazione ereditaria, quando il designato successore è chiamato a subentrare, per intero, o per una quota, nell’”universum ius” del testatore, e attribuzione di legato, quando si è in presenza di lasciti di uno o più beni determinati, singolarmente considerati, sostengono, in definitiva, che, dovendosi individuare la natura delle clausole del testamento sulla base del contenuto oggettivo dell’atto e della ricerca dell’intenzione reale del suo autore, la corte anzidetta avrebbe reso sul profilo della vertenza in argomento una decisione, per un verso, erronea sotto l’aspetto tecnico-giuridico, per aver affermato l’incompatibilità fra atto di dotazione di una fondazione e attribuzione testamentaria di beni a titolo, non di legato ma, ereditario, e, per un altro, in varia guisa incongrua perché non correlata ad un esame debitamente preciso ed analitico del contenuto del testamento in controversia.
Anche questa censura, al pari di quelle delibate nei paragrafi precedenti, ad avviso del collegio, va giudicata non fondata ad onta della non condivisibilità di taluna delle ragioni addotte dalla corte distrettuale per supportare la decisione contestata.
A) – Ed invero, è da dire che si appalesa del tutto destituita di pregio, perché priva di ogni ancoraggio normativo e di ogni base logica, la asserzione secondo la quale l’atto di dotazione correlato al negozio istitutivo di una fondazione contenuto, a mente dell’art. 14, comma 2, cod. civ., in un testamento non potrebbe, in nessun caso, consistere nella nomina ad erede, e dovrebbe, ineludibilmente, concretarsi nell’attribuzione di un legato: al contrario, nulla a ciò ostando, è da ritenere che anche il lascito di beni a titolo ereditario possa integrare quella destinazione di un patrimonio ad uno scopo che rappresenta l’essenza dell’atto di dotazione.
B) – E tuttavia, deve considerarsi che la declaratoria con cui la corte territoriale ha accertato, in concreto, la riducibilità del lascito in contestazione alla nozione, non della vocazione ereditaria ma, del legato risulta ancorata ad una interpretazione del negozio di ultime volontà oggetto della vertenza che, come ogni interpretazione di qualsiasi negozio, integra la risultante di un apprezzamento di fatto, riservato, di massima, al giudice del merito e sottratto al sindacato di questa Corte Suprema se sufficientemente e non contraddittoriamente motivato e se operato nel rispetto dei canoni legali di ermeneutica di cui agli artt. da 1362 a 1371 cod. civ.; dovendo, al riguardo, ribadirsi che i limiti della censurabilità di siffatta declaratoria ed apprezzamento restano quelli precisati sub 2) A).
Nel caso in argomento, le ricorrenti, con il qui esaminato terzo mezzo di ricorso, non risultano aver articolato critiche intese a denunciare incongruenze e inadeguatezze intrinseche dell’”iter” logico attraverso il quale il giudice del merito è giunto alla decisione censurata, o ad indicare specificamente le norme di ermeneutica, o ad indicare specificamente le norme di ermeneutica, assunte, violate e a dimostrare i punti e i modi in cui detto giudice si sarebbe da tali regole discostato, ma finiscono per prospettare, puramente e semplicemente l’interpretabilità del testamento di cui è causa in termini diversi da quelli ritenuto dalla corte distrettuale, e quindi, per sollevare “quaestio facti”, da tenere per non utilmente dedotta, proprio perché tale, nella presente sede di legittimità.
C) – Essendo da ritenere sufficiente la, autonoma, “ratio decidendi” di cui alla lettera precedente a sorreggere la pronuncia impugnata, questa deve essere mantenuta ferma, correlativamente disattendendo “in toto” la qui delibata doglianza: non può, infatti, non trovare applicazione, nel caso esaminato, il principio per il quale, in ipotesi di impugnazione con ricorso per cassazione di una decisione ancorata a più ragioni, ciascuna di per sè idonea a sorreggerla, è necessario, non solo che tutte le predette ragioni formino oggetto di specifica censura ma, che il ricorso si riveli accoglibile nella sua interessa, da ciò soltanto potendo derivare il raggiungimento dello scopo che è proprio di ogni gravame, e cioè la rimozione del provvedimento contestato attraverso l’invalidazione di tutte le ragioni che lo sopportano, con la conseguenza che, nell’ipotesi in discorso, è sufficiente la reiezione anche solo di una delle censure formulate relativamente ad una delle ragioni cennate a comportare il rigetto totale dell’impugnazione, nella inammissibilità, per difetto di interesse, di tutte le restanti critiche (cfr., “in terminis”, Cass. Sez. I civ., sent. n. 2301 dell’1.3.1995).
4) – La reiezione del motivo di cui al paragrafo che precede, e la correlativamente acclarata irretrattabilità della declaratoria della corte territoriale in ordine alla sussistenza nel caso delibato, non di una vocazione ereditaria ma, di una attribuzione di legato, travolge il quarto mezzo di ricorso, con il quale Vittoria e Maria Bernadette Pollicino, denunciando che la Corte d’appello di Messina, nel rendere la sentenza impugnata, sarebbe incorsa in “violazione e-o omessa applicazione degli artt. 487, 485, 707 c.c. e art. 5 disp. att. c.c. (violazione e-o omessa applicazione di norme di diritto – omessa insufficiente e contraddittoria motivazione art. 360 n. 3 e 5)”, lamentano non aver la corte anzidetta esaminato, sostanzialmente disattendendole, loro istanze basate tutte sul presupposto della attribuibilità alla controparte della veste di erede di Francesco Pollicino.
5) – In conclusione, il ricorso, nella verificata inaccoglibilità di tutti i motivi che lo sorreggono, va rigettato.
6) – Le spese seguono la soccombenza e, perciò, nella liquidazione di cui al dispositivo, vengono poste in solido a carico delle ricorrenti.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido, nelle spese, che liquida in L. 744.850, oltre L. 10.000.000 di onorari.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda Sezione civile della Corte Suprema di cassazione, l’11 novembre 1996.