È ammissibile la vendita di un manufatto funerario, cappella, non del suolo cimiteriale in concessione, da parte degli eredi del fondatore del sepolcro a terze persone e, in caso positivo, quali possono essere i procedimenti da seguire?
Risposta:
Come prima cosa va precisato che i riferimenti al regolamento comunale “vigente” devono anche indicare l’omologazione da parte del Ministero della sanità (oggi, della salute), in quanto inderogabile condizione di efficacia. Il regolamento comunale non produce effetto di sorta fin tanto che non abbia ottenuto l’omologazione ministeriale, procedimento che permane nella competenza del Ministero della salute, non rientrando nelle materie oggetto dei trasferimenti di competenze e funzioni alle regioni disposte con il D.P.C.M. 26 maggio 2000 e con effetto dal 1° gennaio 2001. Sarebbe anche importante precisare che tale regolamento preveda la sua applicabilità alle concessioni già precedentemente in essere ed in quali termini. Va chiarito che la concessione iniziale era finalizzata all’espresso scopo dell’erezione di una cappella funeraria destinata al concessionario ed ai membri della sua famiglia, probabilmente individuata dal regolamento comunale di polizia mortuaria vigente al momento della concessione. Nel momento in cui tale finalità è venuta meno (nuova concessione, ma, soprattutto, traslazione delle salme in altra cappella), la concessione è venuta meno, determinandosi la decadenza con effetto dal momento della traslazione delle salme in altro sepolcro. Tuttavia, tale effetto potrebbe anche non essersi prodotto, laddove i discendenti del concessionario originario avessero mantenuto il sepolcro per la sepoltura di altre persone della famiglia del concessionario, quale determinato sulla base del regolamento comunale approvato il 10 agosto 1951. In ogni caso, questo effetto è senz’altro venuto a determinarsi con la dichiarazione unilaterale pervenuta al comune il 16 luglio 2001. La decadenza costituisce un fatto giuridico determinato dall’abbandono e dall’inequivoco animus di abbandonare il sepolcro, rispetto ai fini originari, rispetto a cui va adottato un provvedimento avente natura meramente dichiarativa, e non costitutiva, rientrante nelle funzioni e compiti di cui all’art. 107, commi 3 e seguenti, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, con la precisazione che ogni ritardo nella sua adozione determina la responsabilità di cui all’art. 93 stesso D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267. In ogni caso, spetta ai titolari l’obbligo di mettere il sepolcro in condizioni di poter essere utilizzato ai fini sepolcrali conseguentemente all’intervenuta decadenza di diritto, adempimento che, se inadempiuto, può essere fatto valere tanto con le ordinarie azioni previste dal codice civile, quanto con la riscossione coattiva (D.Lgs. 13 aprile 1999, n. 112, come modificato con D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 326 e si veda, anche. il D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, come modificato dal già citato D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 326 per quanto riguarda in particolare i termini per l’iscrizione a ruolo), alla luce di quanto disposto dall’art. 823, comma 2 codice civile. A prescindere da queste considerazioni, va ricordato che il c.d. jus sepulchri, cioè il diritto ad essere sepolti nella cappella funebre costituisce un diritto personale e non patrimoniale, così che, deceduto il concessionario-fondatore del sepolcro, esso si trasmette unicamente ai suoi discendenti in linea diretta (mai collaterale, salva espressa diversa deroga posta dal fondatore del sepolcro nell’atto di concessione o prevista dal regolamento comunale vigente al momento della fondazione del sepolcro) e non agli eredi che non siano anche discendenti del fondatore del sepolcro, i quali possono subentrare unicamente negli obblighi derivanti dalla concessione, principalmente consistenti nell’obbligo di manutenzione in condizioni di costante utilizzabilità ai fini sepolcrali od altri stabiliti dall’atto di concessione (ma, oltre a quelli di costruzione della cappella, l’atto non ne indica altri) e, sempre, dal regolamento comunale vigente al momento della concessione (di cui manca copia, anche se preannunciata). Dalla documentazione, non è chiarissimo se i soggetti che hanno sottoscritto la dichiarazione unilaterale depositata il 16 luglio 2001 abbiano la qualità di discendenti del fondatore del sepolcro, né si hanno disposizioni che consentano di ritenere pacifica la loro titolarità a porre in essere atti di disposizione del sepolcro, quali la rinuncia, mentre appare abbastanza inconfutabile, per loro stessa dichiarazione, che vadano considerati come onerati. E se i soggetti oggi agenti non siano titolari, si dovrebbe prendere in considerazione l’estinzione della concessione, a far data dalla traslazione delle salme in altro sepolcro. Essendo intervenuta la decadenza, va ricordato che il manufatto costruito (cappella funeraria) diviene di proprietà del comune, per accessione (artt. 934 – 938 codice civile), producendo la contemporanea demanialità del manufatto stesso, per effetto dell’art. 825 codice civile. In tale caso, astrattamente, potrebbe essere applicabile l’art. 936, comma 2 codice civile, con la corresponsione agli eredi, qui in senso proprio, delle somma pagata per la costruzione del sepolcro, se documentate con titoli idonei (originali delle fatture, copie inequivoche dei bonifici bancari disposti per il pagamento; in ogni caso deve trattarsi di titoli conformi alle norme fiscali vigenti al momento del pagamento), somma determinata nella misura a suo tempo corrisposta, e documentata, per il principio di cui all’art. 1277 codice civile, che non ammette rivalutazioni, aggiornamenti od altro. È esclusa la possibilità di stima del valore attuale del manufatto. In tale somma non può essere compresa quella eventualmente necessaria per l’eventuale messa in pristino della sepoltura abbandonata, essendo questo un onere che spetta comunque agli aventi titolo od onerati. Va considerata assurda e fuori luogo ogni ipotesi di rinuncia della somma a suo tempo corrisposta dal fondatore del sepolcro a titolo di concessione, in considerazione che la concessione ha avuto luogo, il manufatto sepolcrale è stato eretto ed utilizzato per le finalità per le quali era sorto, fino a che terzi, rispetto al concessionario-fondatore del sepolcro, non hanno ritenuto, per loro motivazioni (anche se considerabili), di dare diversa sistemazione alle salme: siffatto rimborso importerebbe che, a posteriori, la concessione diventi gratuita, cosa che contrasta con la stessa natura della concessione di sepolcro privato nei cimiteri, specie se si considera che essa è sorta prima dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 7.bis D. L. 27 dicembre 2000, n. 392 convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 2001, n. 26 (in vigore dal 2 marzo 2001), con cui è stata disposta l’onerosità anche dell’inumazione, nonché dell’esumazione ordinaria (salvo 3 eccezioni – indigenza – stato di bisogno – disinteresse – che sono del tutto non pertinenti al caso sottoposto). In altri termini, siffatta rinuncia è nulla in considerazione del fatto che i soggetti agenti, a prescindere dalla loro posizione soggettiva nei confronti della concessione, non hanno proprio titolo a tale rimborso. Dal momento che l’applicazione del principio nominalistico (art. 1277 codice civile) potrebbe non facilitare la rinuncia al comune, c.d. retrocessione, di concessioni di aree per sepolcri privati nei cimiteri, determinando una situazione di difficile gestione ed una diffusione dello stato di abbandono, risulta che molti comuni, in sede di regolamento comunale di polizia mortuaria, debitamente omologati (condizione di efficacia) corrano il rischio della responsabilità patrimoniale prevedendo meccanismi di determinazione dei corrispettivi per le retrocessione di tipo diverso: si tratta di una prassi che, a parte il rischio anzidetto, rispondono a criteri di recupero e riutilizzo del patrimonio cimiteriale. Ma, si badi, un conto è la determinazione di un corrispettivo per la retrocessione, ben altro rimborsare la somma versata a titolo di concessione. Sulla disponibilità del manufatto da parte dei soggetti agenti, occorre ricordare che l’art. 71 R. D. 21 dicembre 1942, n. 1880 prevedesse la disponibilità delle sepolture private mediante atti inter vivos o mortis causa, previsione spesso presente anche in regolamenti comunali di polizia mortuaria ad esso successivi. Tuttavia, tale disposizione era comunque inapplicabile ed “abrogata” fin dal 21 aprile 1942 (cioè da ben prima l’emanazione e la successiva entrata in vigore dello stesso R. D. 1880/1942), data di entrata in vigore del codice civile attualmente vigente, che aveva volutamente affermato la demanialità dei cimiteri. Si tratta di uno di quei fenomeni che si hanno quando i tempi di elaborazione degli atti normativi scontano “velocità” diverse, così che la norma successiva, emanata in un contesto precedente, viene emanata successivamente a norme, spesso di rango superiore, come nel caso, che importano contrasto con quelle già vigenti. Se il codice civile fosse entrata in vigore successivamente, si potrebbe parlare di abrogazione, mentre in questo caso le fasi temporali sono rovesciate e ciò giustifica l’indicazione di abrogazione tra virgolette. Del resto, si tratta di un fenomeno che ha interessato anche il D.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803 e il D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285: basti, per quest’ultimo, pensare ai compiti individuati come rientranti nella competenza del sindaco (o di altri organi del comune) e il fatto che la legge 8 giugno 1990, n. 142, in vigore dal 13 giugno 1990, avesse regolato in modo diverso le competenze degli organi del comune, individuando anche organi non elettivi (dirigenti e segretario comunale, nella formulazione originaria di tale legge). In ogni caso, anche ammettendo teoricamente l’applicabilità dell’art. 71 R. D. 21 dicembre 1942, n. 1880, esso è definitivamente da considerarsi abrogato con l’entrata in vigore del D.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803, cioè senza ombra di dubbio dal 10 febbraio 1976 (anche se non vi sono molti dubbi sul fatto che tale disposizione sia sempre stata pacificamente inapplicabile per la precedente entrata in vigore del codice civile). Dal momento che la concessione di area cimiteriale, in quanto concessione di area demaniale e, in aggiunta, a fine determinato ed univoco, è regolata secondo i principi che si traggono dall’art. 823, comma 1 codice civile, e sottratta ai rapporti di diritto privato, è inconcepibile pensare che, senz’altro successivamente al 10 febbraio 1976 (o dal 21 aprile 1942 per le considerazioni già fatte), possa essere oggetto di qualsivoglia atto di disposizione da parte di chi ne sia titolare, così che va considerata nulla e tamquam non esset anche la richiesta dei soggetti agenti, e rivolta al comune, di concedere l’area a terzo determinato. Anzi, l’indicazione espressa di un qualche rapporto commerciale (il “simbolico rimborso corrispondente …”, per altro non quantificato e, anche se quantificato, comune non accertabile) fa sorgere il divieto di cui all’art. 92, comma 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285, limite inderogabile, in quanto di ordine pubblico, che, oltretutto, produce ulteriore fattispecie, autonoma rispetto a quella vista all’inizio, di decadenza dalla concessione. Una volta dichiarata la decadenza e rientrata l’area nella disponibilità del comune, nonché il manufatto sepolcrale nel demanio del comune, il comune può provvedere alla concessione a terzi e, stanti i presupposti, il solo soggetto cui non potrebbe essere concesso sembra proprio essere la “acquirente”, per le considerazioni viste. Ci sia sommessamente permesso di osservare la tenuità del valore dell’area, specie se raffrontato con l’onere dell’inumazione, e dell’esumazione ordinaria, se computati con i criteri di cui all’art. 117 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, unico parametro attualmente utilizzabile, dato che la concessione di aree cimiteriali per sepolcri privati non dovrebbe essere inferiore all’onere dell’inumazione in campo c.d. comune (e qui diviene senz’altro inferiore, se si considera che una fossa importa un ingombro di 3,51 metri quadrati di superficie, per 10 anni), fattore che costituirebbe un vizio di illegittimità per illogicità manifesta, malgoverno e che potrebbe anche essere valutato in termini di arricchimento senza giusta causa per il concessionario e fonte di danno erariale per il bilancio del comune, quando non si possano anche ravvisare la fattispecie dell’art. 323 codice penale (forse manca l’intenzionalità, ma gli altri elementi sembrano proprio esservi tutti). Alla luce di quanto sopra, il dirigente competente (dagli atti non è chiaramente desumibile esattamente la titolarità della competenza, utilizzandosi formulazioni congiunte, anche se sembrerebbe esservi una prevalenza del primo dei due servizi ed uffici comunali citati, in quanto probabilmente titolare della gestione del patrimonio comunale) provvede alla dichiarazione di decadenza per i diversi motivi per cui essa si è determinata, intimando nel contempo ai soggetti tenuti di provvedere entro il minore tempo possibile alla perfetta messa in pristino del sepolcro e successivamente potrà provvedersi all’assegnazione del sepolcro privato a terzi richiedenti, secondo i criteri stabiliti dal regolamento comunale di polizia mortuaria o altrimenti determinati dalla giunta comunale con proprio atto di indirizzo (artt. 48 e 107, comma 1 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), tenendo presente le considerazioni precedentemente esposte in relazione al divieto di cui all’art. 92, comma 4 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285. Si ribadisce che la dichiarazione di decadenza ha natura di mero atto ricognitivo, e non certamente valenza costitutiva, e che essa si è determinata oggettivamente per il comportamento dei soggetti agenti, tra l’altro formalizzato in precisi atti ormai irretrattabili. Le deliberazioni possono essere dichiarate immediatamente eseguibili, oggi, a termini dell’art. 134, comma 3 D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, essendo stata da questo abrogata la legge 8 giugno 1990, n. 142 (art. 274. comma 1, lettera q)). Tuttavia, va meditato se le concessioni cimiteriali competano alla giunta comunale o non rientrino piuttosto nei compiti e funzioni di cui all’art. 107, commi 3 e seguenti D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 e, prima, all’art. 51 dell’abrogata legge 8 giugno 1990, n. 142. Ci sia, infine, permesso segnalare l’importanza della deliberazione commissariale n. 706 del 27 novembre 1959 nella parte in cui motiva l’accoglibilità della concessione allora richiesta in relazione al fabbisogno, avendo ben presente che il comune ha il solo obbligo di assicurare un’adeguata disponibilità di campi ad inumazione e che eventuali concessioni di aree per sepolture private, per altro del tutto facoltative per il comune, possono avvenire se ed in quanto ciò non influisca sulla disponibilità che il comune è tenuto ad assicurare alla propria popolazione, segno di una sensibilità e senso di buon andamento dell’amministrazione che sembrano oggi cose rare, se non del tutto smarrite. (a cura di Sereno Scolaro)
Norme correlate:
Art 00 di Decreto Presidente Repubblica n. 285 del 90
Art 823 di Regio Decreto
Riferimenti:
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