[Fun.News 3406] Normativa italiana sulle società in house alla Corte di giustizia europea perché aggravata rispetto ad altri Paesi

Il Consiglio di Stato sez. V con l’Ordinanza, 7 gennaio 2019, n. 138 ha rimesso alla Corte di giustizia le questioni di compatibilità con le direttive europee, le norme nazionali sull’affidamento in house di cui all’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti (d. lgs. n. 50 del 2016) ed all’art. 4, c. 1, del Testo Unico delle società partecipate (d.lgs. n. 175 del 2016 smi).

In particolare le ragioni che hanno portato i giudici ad adire la Corte di giustizia europea riguardano in particolare il dubbio che le disposizioni del diritto interno, nel subordinare gli affidamenti in house a condizioni aggravate e a motivazioni rafforzate rispetto alle altre modalità di affidamento, siano autenticamente compatibili con le pertinenti disposizioni e princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea.
Infatti, l’art. 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) impone che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi (con particolare riguardo alla messa a gara con appalti pubblici e alle forme di cooperazione orizzontale fra amministrazioni):  i) consente tali affidamenti soltanto in caso di dimostrato fallimento del mercato rilevante;  ii) impone comunque all’amministrazione che intenda operare un affidamento in regìme di delegazione interorganica di fornire una specifica motivazione circa i benefìci per la collettività connessi a tale forma di affidamento. Ciò, secondo i Giudici parrebbe ledere il principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche e i principio di sostanziale equivalenza fra le diverse modalità di affidamento e di gestione dei servizi di interesse delle amministrazioni pubbliche sancito dalle Direttive dell’UE.

Parimenti, il Consiglio di Stato nutre dubbi  sull’art. 4, comma 1, del Testo unico sulle società partecipate, ai sensi del quale “le amministrazioni pubbliche non possono, direttamente o indirettamente, costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non direttamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né acquisire o mantenere partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”.
Il particolarissimo schema della partecipazione societaria che si configura come organismo ‘in house’ per alcune amministrazioni pubbliche e come organismo ‘non-in house’ per altre amministrazioni pubbliche non sembra in contrasto con il diritto comunitario. Il collegio ritiene tuttavia che, in ragione di ciò, vada verificata la conformità fra il diritto dell’UE (in particolare, fra l’art. 5 della Direttiva 2014/24/UE), che ammette il controllo analogo congiunto nel caso di società non partecipata unicamente dalle amministrazioni controllanti e il citato art. 4, comma 1 (diritto interno) che appare non consentire alle amministrazioni di detenere quote minoritarie di partecipazione in un organismo a controllo congiunto, neppure laddove tali amministrazioni intendano acquisire in futuro una posizione di controllo congiunto e quindi la possibilità di procedere ad affidamenti diretti in favore dell’organismo pluripartecipato.

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