La Corte di Cassazione – Sezione Lavoro – con sentenza n. 2142 del 27 gennaio 2017, ha rigettato il ricorso proposto da un Comune, già condannato dalla Corte di Appello a risarcire un proprio dipendente, nei confronti del quale erano stati posti in essere comportamenti manifestamente mobbizzanti, in quanto lesivi della dignità dello stesso dipendente.
La circostanziata ricostruzione della vicenda operata con la sentenza della Corte territoriale, confermata dalla Suprema Corte, merita di essere portata a conoscenza.
A dicembre 2005 un ordine di servizio stabilì che “il lavoratore fu assegnato allo svolgimento delle ‘pratiche cimiteriali’, con sede stabilita ‘presso gli uffici cimiteriali’. Dalle deposizioni testimoniali era emerso che fu accompagnato all’entrata del cimitero e gli fu detto che quella era la sua sede di lavoro.
Nessuna specificazione in giudizio aveva reso il Comune circa i compiti che potessero essere svolti in detta ‘sede’, in assenza di uno sportello per il pubblico, né come potessero essere eterodiretti quelli dei colleghi, posto che tali persone si trovavano tutte in una sede di lavoro diversa.
Ma ciò che più rileva è che il locale indicato … nel provvedimento come ‘gli uffici cimiteriali collocati all’esterno dell’Ente già dotati di strumenti informatici e di mobilia’, nelle fotografie prodotte … risulta essere una stanza che presenta varie suppellettili ed oggetti che fanno pensare in maniera inequivoca ad una camera mortuaria annessa al cimitero”.
Si trattava di “un luogo igienicamente non adeguato, non conforme alle più elementari norme di sicurezza, oltre che lesivo della stessa dignità umana”.
“Sicché appare del tutto ovvio che, in primo luogo, fosse impossibile rendere la prestazione lavorativa in quel luogo, oltre che appare evidente che tale locale avesse una funzione al tempo stesso punitiva e ‘rappresentativa’, essendo volto a veicolare un messaggio chiaramente mobbizzante di cui era destinatario direttamente il lavoratore ed indirettamente anche gli altri, messaggio che né lui, né gli altri, colleghi o meno, avrebbero potuto fraintendere”.
“Tale stato – continua la sentenza della Corte di Appello – fu preordinato e voluto dal datore di lavoro e realizzato per … finalità ritorsive, avendo il XY dato luogo a rimostranze, prima in sede extragiudiziaria e poi giudiziaria, in presenza di determinazioni datoriali che egli riteneva illegittime, reagendo anziché acquietarsi e subirle passivamente”.
Inoltre, “… sono state provate non solo la situazione di protratta inattività in cui è stato lasciato il XY, ma anche una serie di situazioni mortificanti, quali l’essere lasciato senza scrivania e senza sedia e costretto a sostare nel corridoio in piedi, l’essere destinato al cimitero in un locale le cui condizioni consentono di definirlo non solo inidoneo, ma indecoroso per la funzione e irrispettoso della sua dignità di persona, l’essere stato allontanato fisicamente dai colleghi, oltre che, nel corso del tempo, spostato ripetutamente da un ufficio all’altro …”.
In conclusione, per i giudici della Corte d’Appello “La sistematica esposizione del XYad atti vessatori con azione volta alla negazione stessa dell’individuo e della sua autostima, aveva provocato l’insorgere di una sindrome reattiva di grado medio, fonte di danno biologico, concorrente con il danno all’immagine e alla professionalità, pure derivanti dal demansionamento e dalla complessiva azione dell’amministrazione, che nell’insieme aveva assunto i caratteri del mobbing per la analitica motivazione in ordine alle risultanze della c.t.u. medico-legale e alla percentuale del danno biologico, nonché per il nesso tra comportamento mobbizzante e ulteriori danni non patrimoniali connessi alla lesione dell’immagine e della professionalità”.