Risulta che in molti Regolamenti comunali di polizia mortuaria, così come in altre fonti normative di settore, vi siano riferimenti alla figura del convivente more uxorio, a volte individuandone fattori di legittimazione, fino a comprendere l’estensione dello ius sepulchri, altre volte individuandone forme di prova di questa condizione, talora rimettendo la prova a date registrazioni amministrative, altrove rimettendo la prova alla c.d. “autocertificazione” (richiamando o l’art. 46 oppure, con maggiore appropriatezza, l’art. 47 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 e s.m. “ Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa. (Testo A)).
Si tratta di previsioni redazionali, che appaiono divenute quanto meno obsolete (per non dire ormai abbastanza improprie), anche se costituiscono il segnale del fatto che le trasformazioni sociali erano avvenute con maggiore velocità rispetto alle modifiche normative.
Infatti, molte delle disposizioni cui si fa riferimento risultano essere antecedenti alla L. 20 maggio 2016, n. 76 “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, che è intervenuta su due istituti, in precedenza o assenti o non adeguatamente regolati: (I) le unioni civili tra persone dello stesso sesso, e (II) la disciplina delle convivenze (che, nel testo della legge, vengono meglio indicate quali convivenze di fatto.
Sotto il profilo della tecnica redazionale della legge, appare importante segnalare come essa sia stata formulata in un unico articolo, per cui le citazioni che seguiranno richiameranno i commi pertinenti, senza altre specificazioni.
Le unioni civili tra persone dello stesso sesso
Fin dall’inizio le unioni civili tra persone dello stesso sesso, istituti abbreviabili nella formula “unione civile, prevedono disposizioni che “suonano” molto prossime all’istituto matrimoniale, termine che il legislatore ha voluto evitare, per più ordine di ragioni (sulle quali non si entra), in ciò differenziandosi da legislazioni di altri Stati.
Si osserva come il comma 19 preveda: “19. All’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonché gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma, numero 4), e 2659 del codice civile.
Di maggiore spessore appare essere il comma 20 per il quale: “20. Al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.
La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184.
Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti.”.
Di qui il suggerimento di utilizzare, anche se non sarebbe propriamente necessario, quanto ai soli fini di prevenire equivocità, espressioni, più o meno, del tenore: “coniuge o persona a questi assimilata”: si tratta di formula ridondante, dato che il comma 20 già afferma questo, ma presenta il vantaggio di rendere evidente l’assimilazione così risultante, assimilazione presente anche nei commi 22 e 23 (e si vedano anche i seguenti commi!) dell’unico articolo di cui si compone la L. 20 maggio 2016, n. 76.
Le convivenze di fatto
La seconda parte, quella dedicata alle “convivenze di fatto”, si ritrova nei commi da 36 a 67, il primo dei quali (comma 36) ne dà una definizione: “36. Ai fini delle disposizioni di cui ai commi da 37 a 67 si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, mentre il successivo comma 37 individua in forma esplicita le forme di “accertamento” della convivenza di fatto (“37. Ferma restando la sussistenza dei presupposti di cui al comma 36, per l’accertamento della stabile convivenza si fa riferimento alla dichiarazione anagrafica di cui all’articolo 4 e alla lettera b) del comma 1 dell’articolo 13 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223.”).
Quella del comma 37 costituisce formulazione che ha trovato (né avrebbe potuto essere diversamente) conferma in una pronuncia della Corte di Cassazione, Sez. III. Civ., 15 luglio 2021, n. 20276 per la quale: “… 1.7. Deve, infatti, sottolinearsi che la normativa testé richiamata – che disciplina le unioni civili e le convivenze di fatto – prescrive una formalizzazione, sia pur attenuata, del legame vantato attraverso una dichiarazione che deve essere resa dinanzi all’ufficiale di Stato Civile o all’ufficiale dell’anagrafe (art. 1 co. 1 e 2 ed art. 1 co 36 L. 76 del 2018, in combinato disposto con l’art. 4 e 13 co 1 lett. b, 2 e 3 Dpr 223/1989 e successive modifiche), requisito che rileva in tutti i casi in cui il rapporto debba essere fatto valere per ragioni istituzionali ed “esterne” alla stretta interazione fra i soggetti che compongono la coppia.”