In difetto … del coniuge – 1/3

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Introduzione

All’art. 79, comma 1, secondo periodo D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. si legge, tra l’altro:
…. In mancanza di disposizione testamentaria, la volontà deve essere manifestata dal coniuge e, in difetto, dal …, ecc. “.
Altrettanto analoga formulazione è presente nell’art. 3, comma 1, lett. b), n. 3) L. 30 marzo 2001, n. 130 (“3) in mancanza della disposizione testamentaria, o di qualsiasi altra espressione di volontà da parte del defunto, la volontà del coniuge o, in difetto, del …. ecc.”).
In entrambi i casi si tratta di una regolazione della legittimazione a disporre delle spoglie mortali (in questi 2 casi, per quanto riguarda l’accesso alla pratica funeraria della cremazione) dove, in mancanza di volontà espressa dalla persona defunta, sono legittimati ad esprimere la volontà i familiari, secondo una graduazione caratterizzata dalla poziorità, termine che, fondendo congiuntamente “potere” e “priorità”, comporta come i soggetti individuati dalla norma per primi abbiano propria potestà, esclusiva e tale da escludere i soggetti indicati successivamente.
In realtà queste norme non sono, per così dire, “auto-confinate” unicamente in materia di manifestazione della volontà alla cremazione, ma sono la formalizzazione, sintetica (e la sinteticità qui rileva anche per chiarezza), di quella che è stata una ormai costante e consolidata giurisprudenza in materia di titolarità a disporre delle spoglie mortali dei defunti, indipendentemente dallo stato in cui si trovino.
Per inciso, va osservato come tra le due disposizioni vi sia una differenziazione nel senso che quella presente nella L. 30 marzo 2001, n. 130 appare più ristretta (ci si riferisce alla previsione per cui: “…. e, in caso di concorrenza di più parenti dello stesso grado, della maggioranza assoluta di essi, manifestata …”) applicandosi quest’ultima unicamente alla fattispecie dell’autorizzazione alla cremazione di cadaveri (nonché, per il rinvio esplicito presente, per la fattispecie considerata all’art. 3, comma 1, lett. b), n. 3 stessa legge), mentre la previsione dell’art. 79 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m., proprio per il fatto di essere quella “sintesi” dell’elaborazione giurisprudenziale, cui si faceva cenno in precedenza, in materia di legittimazione a disporre delle spoglie mortali.

In quali situazioni si ha il “difetto” del coniuge?

L’indicazione circa la legittimazione del coniuge porta a dover considerare lo stato civile delle persone defunte, cioè il fatto se questo sia libero o meno, dato che la libertà di stato rileva per considerare sussistente in “difetto” di coniuge.
Evidentemente, non basta considerare astrattamente lo stato libero, dal momento che esso può sussistere su presupposti ben diversi.
Infatti, ci può essere il caso della persona che non ha contratto matrimonio, ma anche i casi di persone che abbiano contratto matrimonio e che, al momento della morte, non lo siano più.

I casi di scioglimento (o di effetti abbastanza consimili) del matrimonio
L’art. 149 C.C. prevede che il matrimonio si sciolga con la morte di uno dei coniugi o negli altri casi previsti dalla legge.
Ora, nel caso dello scioglimento del matrimonio per morte di uno dei coniugi (o parte di unione civile tra persone dello stesso sesso), non vi sono particolari difficoltà a valutare, verificare se, al momento della morte di una persona, questa fosse ancora coniugata o in stato di vedovanza.
Il rinvio ad altri casi di scioglimento del matrimonio quali previsti dalla legge porta da subito a richiamare la L. 1° dicembre 1970, n. 898 e s.m. “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio”, per la quale va – subito – introdotta una precisazione, cioè il fatto che, tecnicamente, si può parlare di “scioglimento” del matrimonio quando questa sia stato contratto “a norma del codice civile” (art. 1 legge citata), mentre (art. 2 stessa legge): “Nei casi in cui il matrimonio sia stato celebrato con rito religioso e regolarmente trascritto, il giudice, …… pronuncia la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio”.
Si tratta di una distinzione sostanziale, che va ben al di là delle formulazioni “tecniche”, ma che poco sposta rispetto alla questione di stato.
Ovviamente, qui non si considerano le condizioni, né le procedure e loro aspetti specifici, né le loro modificazioni intervenute nel tempo, ma unicamente l’effetto finale, “risolutivo” del rapporto di coniugio, cioè quando sorgano gli effetti dello scioglimento (o, a seconda dei casi, della cessazione degli effetti civili) del matrimonio.
Sia permesso una breve annotazione, in quanto talora si usa il termine “divorzio”, che non è sempre, tecnicamente, coerente, salvo quanto intervenuto sulla base di altri ordinamenti.

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Sereno Scolaro

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