In molti segmenti del settore funerario (termine che non comprende unicamente una sua parte, come indebitamente talora utilizzato) si pongono, e non da oggi, esigenze d’innovazione.
Non ci si riferisce solo ad alcuni aspetti, né riferendosi a normative considerate non più funzionali per il semplice fatto di avere una “data di nascita” non recentissima, ma in primis alla capacità dei diversi attori di individuare e costruire soluzioni quanto più possibili prossime alle esigenze dei fruitori (o, meglio, delle persone collegate a questi). Questo non per qualche modifica più o meno ideologicamente orientata verso la novità o verso l’importazione di prassi altrove presenti, dato che queste importazioni non tengono conto del contesto in cui possano o debbano produrre i propri effetti: se qui o là vi siano prassi, altro non presenti, significa solo che vi è una risposta a contesti differenti.
Ciò senza giudizi di valore. Ad esempio, l’Istituto Cattaneo ha istituito O.R.M.E. (Osservatorio per la Ricerca sulla Morte e le Esequie), dai cui Rapporti emerge come in Italia siano presenti in materia “culture” anche differenti, non solo tra macroaree geografiche, ma altresì tra contesti altamente urbanizzati e paesi, ma anche in relazione ad altri fattori, incluso le stratificazioni sociale e i livelli di scolarizzazione (e, ovviamente, altro).
Sul versante delle attività funebri si registrano approcci diversi, mentre su quello cimiteriale l’orientamento all’innovazione sembra essere meno presente, non avendo colto i cambiamenti che stavano intervenendo e che vede cambiamenti importanti, come i mutamenti nella composizione degli “ingredienti” della “ricetta” di cui è composta la domanda di servizi: considerando gli ultimi 5-10 anni addietro, le percentuali della domanda, ripartite tra le tre pratiche funerarie, era ben diversa rispetto a quelle attuali, ma queste variazioni non si esauriscono nella sola variazione di valori percentuali (dato quantitativo), ma anche (e, soprattutto) nelle componenti qualitative, nel senso che (es.) una crescita della cremazione non consente più di prevedere una domanda computata in relazione al numero dei decessi (magari misurata in termini di superficie necessarie, criterio che può traslarsi in volumi quando sia richiesta la tumulazione), ma muta anche la tipologia volumetrica, dato che l’accoglimento di urne cinerarie importa volumi ulteriormente inferiori.
Il tutto rende inattuale calcolare la domanda in termini di mortalità, dovendosi (disponendosi dei dati opportuni) anche tenere conto di ben altro.
Se poi si aggiunge che, tra le cremazioni, circa i 2/3 delle urne trovino accoglimento cimiteriale, restando la differenza interessata ad altre modalità (dispersione delle ceneri, affido ai familiari), per cui l’indice di mortalità (uno tra i parametri indicati all’art. 6, comma 1 L. 30 marzo 2001, n. 130) diventa valutabile in modo diverso rispetto al passato, si colgono le differenze.
Anche sulla programmazione cimiteriale (art. 91 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m.) persistono orientamenti di una programmazione proiettata su prospettive ultra decennali (20, a volte più, anni), quanto la “velocità” di trasformazione nelle scelte delle famiglie risulta maggiore.
Da ciò emerge la questione di affrontare il tema dell’innovazione, per cui, a parte il necessario orientamento per questa da parte dei diversi attori, possono individuarsi plurime situazioni.
Quella in cui ciò è immediatamente attivabile, quella in cui è possibile fare ricorso a indicazioni che la favoriscano, nonché quelle che comportano interventi più o meno consistenti, in cui si possa intervenire con maggiore o minore facilità.
A volte possono essere sufficienti azioni in ambito amministrativo, altre volte occorre intervenire in ambito normativo, che, quando di data natura, richiedono interventi nazionali, altre volte anche territorialmente limitati, specie quando i loro effetti di esauriscano nel contesto territoriale di riferimento e gli enti esponenziale di questo livello abbiano titolarità ad intervenire.
Ma questo porta anche a considerare che sul livello nazionale sembrano, almeno rispetto a situazioni precedenti, esservi maggiori difficoltà ad intervenire, non solo per una qualche ritenuta marginalità del settore (per non parlare di atteggiamenti … apotropaici), ma anche per il fatto che il complesso dell’attività normativa è compresso da altre esigenze (e.s.: conversioni in legge di D.-L., necessità di affrontare aspetti di maggior rilievo, oltreché volontà di cogliere le questioni e darvi una soluzione), per cui si aprono spazi per rivenire livello d’intervento più avvicinabili, non solo per ragioni di prossimità territoriale, ma altresì per una maggiore permeabilità (specie quando manchi la c.d. memoria storica) e sensibilità a blandizie (…), come nei casi in cui situazioni che, per loro natura, non attengono a livelli territorialmente diversi rispetto a quello nazionale, sono stati de facto affrontati in questi ultimi.
Si potrebbero formulare molti esempi in cui vi sia stato uno “sconfinamento” senza che ne conseguisse altro effetto se non quello dell’effetto della disarticolazione, con le conseguenti criticità operative.
Se il criterio dell’indice della mortalità risulta ormai divenuto poco significativo, a volte perfino distorcente, per una qualche programmazione che costituisca base e supporto per l’innovazione, a questo occorre contrapporre una visione di orizzonti che superino le singolarità iper-locali, individuando contesti adeguati, anche superando le circoscrizioni meramente amministrative, cioè ambiti territoriali omogenei adeguati a produrre e fornire servizi e prestazioni rispondenti alla (reale), o abbastanza prossima a questa, domanda proveniente dalla popolazione.
Di fatto vi sono servizi che, per quanto al momento non siano classificabili come “a rete”, presentano tutte le caratteristiche per impostare azioni che giungano ad una tale classificazione, opportuna anche per individuare autorità di regolazione qualificate.
Dall’altro, occorre anche valutare quali siano gli strumenti maggiormente idonei ad raggiungere la funzione cui dovrebbero rispondere. Solo alcuni esempi.
Se la funzione della “sepoltura” (cioè prescindendo anche dalle singole pratiche funerarie) sia quella di far sì che si realizzino i (fisiologici) processi trasformativi cadaverici, si potrebbe arrischiare di ricercare soluzioni che vadano in questo senso: l’art. 75, comma 1 D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285 e s.m. pone, per l’inumazione, un divieto di uso di casse metalliche o di altro materiale non biodegradabile, previsione che aveva un senso all’origine, ma che porta ad escludere, almeno rebus sic stantibus, soluzioni innovative, attraverso peculiari modalità realizzative, che potrebbero non solo consentire, ma anche favorire, questa funzione, forse anche meglio rispetto a casse lignee.
Oppure, pensiamo a modularità o all’uso di materiali un tempo non presenti, ma oggi non solo presenti, ma ampiamente accessibili, che potrebbero produrre effetti adeguati.
Infine, sembra non sia presente un qualche approfondimento, studio, ricerca rispetto ai temi “energetici”/“ambientali” (spesso coniugabili tra loro).
Quanti valutano oggi l’impatto (es.: in termini di consumi energetici, o di emissioni di CO2 delle diverse pratiche funerarie, oppure il loro impatto ambientale?
Esempi di innovazioni potrebbero essere numerosi, ma la questione di fondo non è il “nuovo”, quanto se questo “funzioni”.
Meglio se ciò possa essere comprovato da studi, analisi ed approfondimenti oggettivi e, non, con mere affermazioni di chi lo commercializzi.